Pan – Viaggio Sull’Isola Che Non C’è: un’iperbole senza emozioni

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PAN (locandina)In un tempo abbastanza lontano, la storia di Peter Pan – «il ragazzo che non voleva crescere» al centro di due romanzi dello scrittore James Matthew Barrie – avrebbe dato luogo a un film d’avventure di quelli tanti anni fa confezionati con cura, mestiere e spirito artigianale dalla Hollywood dei Raoul Walsh e degli Allan Dwan. In epoca più recente, e dopo l’iconica versione Disney, si sono cimentati col personaggio di Barrie lo Steven Spielberg eccessivo e ridondante del poco riuscito Hook – Capitan Uncino (Hook, 1991), nonché il più efficace Marc Forster di Neverland – Un Sogno Per La Vita (Finding Neverland, 2004), dedicato invece alla vita (anche onirica) del commediografo scozzese dalla cui fantasia e dalle cui esperienze personali Peter Pan prese forma. In generale, però, si ha l’impressione che i racconti di Barrie inneschino nei registi acrobazie e velleità tecnologiche estranee a qualsiasi buon senso e, anzi, consacrate all’eccesso, all’iperbole, alla ginnastica estetizzante: non fa eccezione alla regola questo Pan – Viaggio Sull’Isola Che Non C’è, giocattolo da 150 milioni di dollari scritto da Jason Fuchs immaginando gli atti fondativi dell’epopea di Peter, ispirati ai personaggi di Barrie ma antecedenti la loro cronologia, e diretto con sfrenata, spesso pletorica vocazione spettacolare da Joe Wright.

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Giglio Tigrato / Tiger Lily (Rooney Mara)

Se lo sceneggiatore si è divertito a trasportare la storia di Peter, rapito da un gruppo di pirati volanti e trasportato sull’Isola Che Non C’è (dove infuria lo scontro tra i giannizzeri al servizio dell’invasore Barbanera e i ribelli indigeni, capitanati dalla principessa Giglio Tigrato), nella Londra della Seconda Guerra Mondiale, il regista si è innamorato dell’idea di mettere in scena una continua scenografia dell’esuberanza basata su abiti sgargianti, spericolate traiettorie aeree, battaglie e inseguimenti architettati in modo da sfruttare al massimo le potenzialità pluridimensionali del 3D. A parte le controversie suscitate dalla scelta di usare un’attrice dai tratti caucasici come Rooney Mara, peraltro del tutto fuori parte, nel ruolo della principessa indiana (persino Walt Disney, non proprio un progressista, aveva preferito non “sbiancarne” la fisionomia nel cartone del 1953), quello che salta all’occhio fin dai primi minuti di Pan è l’inadeguatezza di Wright, altrove corretto quanto anonimo illustratore di alcuni classici della letteratura (Jane Austen in Orgoglio E Pregiudizio [Pride & Prejudice, 2005], Ian McEwan in Espiazione [Atonement, 2007] e Lev Tolstòj in Anna Karenina [2012]: film non tutti irricevibili, forse, ma di certo non incensabili per dinamismo o espressività), nel dirigere un apparato tra epos e mitologia senza spingere sui pedali dell’esagerazione visiva e dell’imprevedibilità delle situazioni, senza scatenare una corsa all’inebetimento percettivo dello spettatore, senza affondare in una costipazione di colpi di scena ottici ben presto oltre ogni soglia di tollerabilità.

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Barbanera / Blackbeard (Hugh Jackman)

In saldo attivo, a voler essere generosi, ci sono i costumi magnifici (ancorché un po’ pleonastici) della bravissima Jacqueline Durran, collaboratrice abituale del regista, mentre del tutto sbagliato risulta il cast, a cominciare da un’insopportabile Hugh Jackman nei panni del pirata Barbanera. A costui, inoltre, spetta l’onere di trovarsi al centro della sequenza più brutta e irritante dell’anno, quella in cui lo vediamo coinvolgere i folletti suoi schiavi in un’incomprensibile cover della Smells Like Teen Spirits dei Nirvana, talmente fuorviata, rispetto agli intenti originari, da chiedersi se l’autore, in vita, avrebbe mai potuto autorizzarne un simile scempio (siccome al peggio non c’è tuttavia mai fine, a un certo punto, parimenti inopportuno, saltano fuori anche i Ramones di Blitzkrieg Bop). Nessun effetto speciale, nemmeno il più appariscente e costoso, può sopperire a una drammatica assenza di emozioni o rinvigorire una spettacolarità degradata dal suo stesso (auto)abuso, e da questo punto di vista Fuchs e Wright si dimostrano incapaci di contaminare il loro luna-park dell’immagine con un pur minimo coefficiente di ironia, di umanità e di sfumature fiabesche.

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Peter Pan (Levi Miller) e Uncino / James Hook (Garrett Hedlund)

Sebbene non fosse stato in grado di ricavarne un’opera memorabile, l’australiano PJ Hogan, due anni fa regista di un Peter Pan dalle forti implicazioni psicanalitiche, fedelissimo al romanzo di Barrie, aveva perlomeno capito come la vicenda del ragazzo, già teatrale e barocca per costituzione, necessitasse soltanto d’un pizzico di asciuttezza e di un trattamento non immune al fascino della malinconia. Barrie, difatti, aveva creato Peter Pan ispirandosi al fratello David, morto a quattordici anni in un incidente di pattinaggio, e ne aveva pensato la figura, isolata in un intreccio simbolico di madri da riconquistare e sentimenti negativi, come memento talvolta crudele sull’ineluttabilità dell’ingresso nell’età adulta. Nell’asserire «Io sono la gioia, io sono la giovinezza», il Peter Pan di Barrie continua a ricordare con dolore la giovinezza perduta di milioni di lettori, sedotti dalla prosa di un autore (forse tentato dalla pedofilia, forse impotente, senz’altro titolare di un’esistenza amara e scandalosa) soprattutto capace di suggerire conclusioni tragiche che il baraccone di Fuchs e Wright non sfiora neanche per sbaglio.

Gianfranco Callieri

 

PAN –  VIAGGIO SULL’ISOLA CHE NON C’È

Joe Wright

USA – 2015 – 111’

voto: *