Poesia di carne tra le piante e i tram

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Mariangela Gualtieri – foto di Alessandra Baschieri

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Non è facile parlare del lavoro di Mariangela Gualtieri. Durante il suo affollato recital Bello mondo alla Serra Lorenzini di Milano, visto il 22 novembre 2015 nell’ambito della rassegna Gemme e Tempesta, eravamo presi da diversissime impressioni. Per cominciare, al livello della poesia-detta-a-voce-alta. Non letta, proprio detta a memoria. Raramente capita di vedere poeti dire a memoria i propri versi. Il medium di solito è il libro, e da lì si parte (e si arriva). Ma la lettura dei propri testi spesso spinge l’autore a chiudere il circuito comunicativo su di sé, indebolendo sonorità-energia-pronuncia; o al contrario a enfatizzare sonorità-energia-pronuncia, spesso con andamenti disuguali nella stessa voce, dove si passa dal sottotono all’enfatica declamazione. Il punto è che il più delle volte si cerca di rendere orale il proprio scritto senza essere passati per un’oralità già al livello della composizione. Oppure non ci si è mai posti il problema della poesia come evento orale-sonoro, oltre che letterario. Quel sentimento preciso che la poesia può essere orale già nel suo primo impulso, che poi la scrittura subito cattura e mette in misura. Ma la Gualtieri, lo sappiamo tutti, non è solo una poetessa, è anche un’attrice-performer dal background tutt’altro che trascurabile. Ora, in questo recital, quello che si nota è la naturalità con la quale l’autrice incarna le proprie parole. È un livello sottile, che potrebbe in ogni momento franare di là – un dire maturo da grande attrice che è arrivata all’assorbimento quasi totale di ogni teatralità – o di qua – il dimesso porgere. Lei riesce a rimanere per tutta la durata della performance quasi sempre in un equilibrio dinamico, un surplace di notevole intensità, tra l’una cosa e l’altra. Non la sentiamo recitare né “dire”; piuttosto, quello che fa, è di aderire totalmente alle parole. Di più: sembra proprio manifestarle qui ed ora ogni volta di nuovo dal vuoto che le ha generate nell’atto della scrittura. Accade così: come un vuoto pieno d’attesa nel quale non viene preparata alcuna arma che agganci lo spettatore-ascoltatore; poi, da quel vuoto, prende forma la prima manifestazione della parola generata; che appare proprio generata lì, in quel momento, da quel vibrante esserci del corpo che nel frattempo si è attivato, ma che quasi nega la propria consistenza, come a indicare che è nel corpo-parola, dalla vibrazione più sottile, e non nel corpo-corpo che dobbiamo registrare l’evento.

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Mariangela Gualtieri - foto di Dino Ignani
Mariangela Gualtieri – foto di Dino Ignani

 

Il nero vestito che la performer indossa sembra rafforzare questa impressione: scomparsa del corpo; presenza della parola-corpo generata sul momento dal lavorìo interno. E di questo lavorìo interno noi vediamo -ecco, questo sì, lo vediamo- una manifestazione fisica nelle increspature del volto, unica parte illuminata, e nel catturare le mani a volte un gesto di esortazione. I muscoli del viso sembrano rispondere alle parole come la superficie di un lago alle correnti subacquee; o come le lente e quasi invisibili, eppure quanto improvvise e sorprendenti, variazioni della luce su un paesaggio. Ecco, se il viso di Mariangela Gualteri è un paesaggio, la luce che ne modifica più o meno impercettibilmente la fisionomia e ne riempie gli occhi vi è versata copiosamente da ciascuna parola manifestata. Lungi dalla tentazione di scadere in toni inutilmente enfatici, tuttavia non si può negare alla fine di trovarsi di fronte a una specie di evento naturale, che tracima da ogni schema e rende difficile, se non impossibile, ogni tentativo di definizione: lettura d’autore/performance d’attrice/poesia in azione, tutte queste cose in realtà convivono felicemente.

Metricamente la poesia qui quasi scompare; non è facile cogliere la misura del verso –  che con grande limpidezza si  afferra invece sulla pagina –  sembra che l’urgenza di Mariangela sia esclusivamente quella di far arrivare la parola-carne, che si prepara all’interno e poi si manifesta all’esterno con un processo naturale, e disponibile qui ed ora,  di sbocciatura. In questo senso la poesia Interrogazione alla primavera con pericolosa rima finale, dove contempliamo con la poetessa  il miracolo della comparsa dei fiori sulla Terra 50 milioni di anni fa (Quale cuore che mente/ ha schizzato fuori/ la legge della fioritura/ i colori e le forme/ e la sfumatura così delicata/ dei petali nel punto d’innesto/ alla corolla./), dà un’immagine calzante del modo in cui la Gualtieri è in grado di far rivivere la poesia in presenza (di autore-ascoltatore). Non è un caso che con molta esattezza essa parli di “rito sonoro” per definire quello che fa. Un rito di ri-nascita-fioritura.

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foto di David Coloma
foto di David Coloma

 

La serra è un ambiente anomalo, benché suggestivo, per una serata di teatro-poesia. Tecnicamente anomalo; e nonostante il teatro-fuori-dal-teatro conosca declinazioni decisamente più estreme, l’effetto è comunque piacevolmente straniante: il palco è una pedana circondata di piante, e le pareti sono di vetro, quanto di più lontano dall’esigenza tutta teatrale di chiudere la scatola visiva nel nero della quintatura. Alle spalle della performer vediamo passare i tram che da Gratosoglio (periferia sud di Milano) vanno verso il Duomo e viceversa. Uno sfondo su cui si può fantasticare: e se queste parole di poesia fossero i pensieri della gente sui tram? O è la gente lì dentro che sentirà in qualche modo l’esalazione, l’effluvio della poesia? Al ritorno, salendo su uno di quegli stessi veicoli, la fantasticheria non pare poter essere confermata: la vettura si presenta come una specie di accampamento di quelli che sembrano homeless delle più diverse nazionalità. Cosa potrà essere per loro la poesia? La distanza tra i due mondi sembra incolmabile. Eppure non è casuale che la rassegna si svolga qui. In questo luogo per “disobbedienti”, la Serra Lorenzini, dove disobbedienti sono, per la direttrice artistica Monica Morini del Teatro dell’Orsa, gli spettatori che venendo qui a fruire teatro-poesia incrinano un consolidato automatismo d’ambiente, siamo sì fuori dal contesto convenzionale del teatro e della poesia, ma anche fuori contesto nei riguardi di quanto ci si aspetta normalmente da una serra botanica. Perché in questo luogo noi vediamo dichiararsi, attraverso il lavoro degli artisti ospiti, non tanto l’attività vivaistica, quanto la coraggiosa opera della cooperativa sociale I Percorsi Onlus, promotrice della rassegna. Come gli operatori della Cooperativa hanno ampiamente raccontato prima e dopo il recital, qui, alla Serra, e in altre sedi sparse per Milano, ci sono operatori qualificati che si prendono cura di chi vive una disabilità acquisita, per un incidente, una malattia; gente che fa un grande lavoro per curare, di queste persone, anche l’anima, la voglia di reazione, di relazione e di bellezza. Allora quand’è così, viene da pensare, niente di più sacrosanto e giusto che far saltare tutti gli automatismi, tutte le convenzioni, tutti i confini. Perché uno dei compiti d’anima del teatro e della poesia è dissolvere i confini, cancellare ogni periferia, far percepire il centro ovunque ci si trovi. Non me ne vorrà Mariangela Gualtieri se per finire rubo un verso alla sua collega Chandra Livia Candiani: “L’universo non ha un centro,/ ma per abbracciarsi si fa così:/(…)”.

FRANCO ACQUAVIVA

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Visto alla Serra Lorenzini di Milano domenica 22 novembre alle ore 18.30 nell’ambito della rassegna Gemme e Tempesta