Don Henley e l’ultima spiaggia

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Entri alla Music Hall di Amsterdam (che in verità si chiama come la più nota birra al mondo – ma noi la pubblicità non la sopportiamo, specie se per birre piene di conservanti) e un po’ di magone ti viene: pensare che gli Eagles, uno di quei gruppi che volenti o nolenti hanno per davvero fatto da colonna sonora al mondo, con la morte di Glenn Frey non esistano più, il groppo in gola te lo fa venire – eccome. Questo Don Henley lo sa, lui perfezionista maniacale, e vede bene che il concerto non sia un requiem per le Aquile – anzi, lo dice lui stesso, con quell’accento fra il pragmatico, il divertito e lo spaccone che più texano non si può: «Stasera suoneranno brani presi da un cospicuo numero di decenni – sapete perché? Perché possiamo…».

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O meglio, la finta che sia un requiem sembra metterla lì all’inizio: inaspettatamente l’attacco è con Seven Bridges Road, che faceva un figurone in Eagles Live (1980), però a naso è più che altro un tributo a Steve Young (il pezzo è appunto suo), splendido cantautore e vecchio amico che proprio quest’anno – anche lui, maledetto 2016! – è passato a miglior vita. Il cuore del concerto, però, è lo splendido Cass County, album prodotto con Stan Lynch (ex Heartbreakers di Tom Petty) che davvero ha mostrato un Don Henley al massimo delle possibilità – e uno dei più belli del 2015 tout court. Di quel disco pieno di ospiti di tutti i tipi (Mick Jagger, Merle Haggard, Alison Krauss, Dolly Parton, Vince Gill, Lucinda Williams, Miranda Lambert) spreme molto del meglio, anche se avremmo donato una falange se avesse concesso anche la splendida She Sang Hymns Out Of Tune – eccellente rilettura di un vecchio classico West Coast anni Sessanta di Jesse Lee Kincaid – The Cost Of Living – duetto tutto brividi con Haggard – il capolavoro Praying For Rain oppure The Brand New Tennessee Waltz di Jesse Winchester. Tant’è, non lamentiamoci. Perché lamentarsi non è giusto quando hai comunque a che fare con numeri eccellenti quali No, Thank YouThat Old Flame, lo splendido Train In The Distance, il magnifico Bramble Rose di Tift Merritt – qui niente Jagger e Lambert ma un’interpretazione con tutta la band impegnata in un canto corale old time – Words Can Break Your Heart e When I Stop Dreaming. Il tutto proposto con voce perfetta, profonda, invecchiata ma tutt’altro che arrugginita: David Geffen lo chiamava «L’uomo con il dono di una voce d’oro» – e non è tanto difficile capire perché.

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Non mancano nemmeno le hit in proprio: la tetralogia Dirty LaundryThe End Of The Innocence – in pochi negli anni Ottanta hanno saputo fermare la disillusione per certi baby boomers come in questo pezzo – The Heart Of The Matter e The Boys Of Summer fa fremere sia per valore intrinseco sia per come l’autore le ha ri-arrangiate con assoluta maestria togliendo loro quella patina forse un po’ artificiosa che avevano le versioni originali, dettata più che altro dai tempi in cui furono incise. E poi gli Eagles, la leggenda delle Aquile: One Of These Nights fa scattare in piedi l’intera Music Hall con il suo inimitabile beat country-disco music, I Don’t Want To Hear Any More bizzarramente lasciata alle solo ugole delle tre coriste, Hotel California, la sempre potentissima e travolgente Life In The Fast Lane – «Eager for action/Hot for the game»! – Desperado ma sopratutto The Last Resort: il più grande pezzo dello scomparso gruppo, presentato come «questa è la storia della Western Civilization», qui è davvero maestoso, fat, vibrante come ci aspetta sempre che sia e con la voce di Don che sì, è proprio d’oro massiccio 24 carati. Sette-otto minuti commoventi.

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Don Henley e gli Eagles sono stati spesso tacciati di poca fantasia («Gli Eagles sono eccitanti come la vernice che asciuga, i loro album hanno una sola utilità: evitare che la polvere finisca sul piatto del giradischi. E si capisce perché: mai che i loro stivali abbiano pestato merda di vacca» – ebbe a dire Tom Waits in un famosa uscita che, peraltro, qui abbiamo sempre inteso come una battuta) – ecco smentiti tutti. Per la serie non-te-lo-aspetti, i punti cardinali della musica saltano con due cover scelte molto bizzarramente: It Don’t Matter To The Sun di Garth Brooks e niente popodimeno che Everybody Wants To Rule The World dei Tears For Fears – niente paura, siamo pronti a tutto, qualche anno fa la fece anche Patti Smith. Un po’ frastornati usciamo dalla Music Hall – e ci prende il magone che dicevamo qualche paragrafo sopra: Glenn Frey se ne è andato, gli Eagles non ci sono più. Ma l’inchino a Don Henley è d’obbligo. Giù il sipario.

CICO CASARTELLI

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