Santa Estasi: il dramma borghese di Antonio Latella

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Tradire la tradizione: rivelare ciò che doveva essere nascosto, un segreto che preme per venire a galla e mostrarsi nelle sue reali fattezze. Questa probabilmente è la funzione dell’arte contemporanea, o comunque è la direzione dove la ricerca sembra andare per scavare indietro e lanciare stimoli in avanti, dubbi, domande. In questo senso Santa Estasi è un enorme lavoro di teatro contemporaneo, un lungo studio che ha portato Antonio Latella, insieme agli attori e ai drammaturghi, a creare uno degli spettacoli più belli della stagione, un viaggio all’interno della tragedia greca, della storia, delle leggende, per giungere ad affrontare tematiche umane universali, che sentiamo spaventosamente vicine.

Santa Estasi, Atridi: otto ritratti di famiglia è il frutto del Corso di alta formazione diretto da Antonio Latella e promosso da ERT, che ha permesso a sedici attori (selezionati su cinquecento) e sette drammaturghi di lavorare per cinque mesi, sotto la guida di Latella, Federico Bellini e Linda Dalisi, e dare alla luce un affresco sulla tragedia classica, partendo da Tieste di Seneca, passando per Ifigenia in Aulide di Euripide, fino a giungere all’Orestea di Eschilo.

Il progetto, declinato in otto differenti spettacoli, otto, appunto, ritratti di famiglia, sono stati riuniti insieme per la maratona di diciannove ore, che lo scorso 11 giugno ha riempito la sala del Teatro delle Passioni di Modena. Un’esperienza estrema, che ha condotto insieme spettatori e attori a raggiugere quell’“estasi” tanto ambita dal regista: una comunione di sensazioni, che permette alle parole di sgorgare fuori dalle bocche e di toccare il pubblico per provare tutti le stesse emozioni, per sentirsi parte di uno stesso avvenire.

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Siamo davanti alla lunga sala del teatro delle Passioni, le luci, spesso forti, illuminano anche il pubblico; il contatto è palese fin dall’inizio quando un lungo tavolo di legno, con tutti i componenti della stirpe degli Atridi seduti, è posizionato a ridosso della prima fila. Siamo in una casa: in scena ci sono i fornelli, i divani, i letti, quel nido dove tutto nasce e quella gabbia dove tutto si svolge e marcisce, un’ambientazione, quella casalinga, che accompagna gran parte dello spettacolo e che lo chiude come a completare un cerchio.

Gli episodi (Ifigenia in Aulide, Elena, Agamennone, Elettra, Oreste, Eumenidi, Ifigenia in Tauride, Crisotemi) ripercorrono la storia dagli inizi della maledizione che condanna la stirpe degli Atridi, ma non lo fanno con tensione narrativa, bensì introspettiva su ogni singolo personaggio protagonista delle diverse vicende. I flussi di parole, discostandosi dall’emotività incontrollata, diventano ritmo, un movimento che permette allo spettatore di concentrarsi profondamente sul loro significato.

Con Santa Estasi il regista napoletano giunge probabilmente all’apoteosi del linguaggio: quelle caratteristiche tipiche del suo teatro, i cori, la voce modulata e amplificata, la recitazione delle parti fuori campo sovrapposte alle battute, la musica, si intersecano con una precisione che non lascia buchi e dona un’interezza rara. È notevole il lavoro dei drammaturghi, che partendo dai testi classici, hanno brillantemente riscritto la tragedia dell’attualità, donando ai dialoghi delle sfumature che appaiono spesso come fotografie dei nostri vissuti: «E poi vedo il mare pieno di sangue», «Esiste un modo per attraversare il mondo oggi?». Ma il testo, verboso, violento, sanguigno è anche il risultato di un lavoro svolto con i bravissimi attori, che lo sentono dentro e lo recitano, nonostante le tante ore di spettacolo, come fosse ormai parte del loro stesso corpo.

La tragedia di Latella è un «dramma borghese»: c’è dentro l’arte del Novecento, il cinema, la filosofia, la politica, la crisi attuale («Noi siamo una generazione senza avvenire» afferma Crisotemi). È la reiterazione di situazioni che non si creano, ma si ereditano, come quei mali familiari di cui non riusciamo a liberarci, come quell’ossessione di vendetta che assilla Elettra, come il senso di colpa che perseguita Oreste. È lo specchio di storie all’interno delle quali noi stessi ci vediamo, con gli occhi gonfi, la testa appesantita, e mille scosse al petto che ci ricordano istinti ancestrali, desideri celati, solitudini e gioie.

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SILVIA MERGIOTTI

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