Due meritatissimi premi (Ubu e Hystrio) alla regìa di Antonio Latella per Un tram che si chiama desiderio, drammone di Tennessee Williams del 1947 che molti ricordano per l’omonimo film di Elia Kazan (con Vivien Leigh e Marlon Brando) o, in anni più recenti, per Tutto su mia madre di Pedro Almodóvar, pellicola in cui il dramma ha un ruolo focale. Antonio Latella, che da anni vive e lavora tra Berlino e l’Italia, in questo spettacolo assembla un congegno in cui la struttura e il linguaggio usati sono continuamente dichiarati, messi in evidenza, allo scopo di raffreddare, e dunque di intensificare (McLuhan docet!), una vicenda così carica di pathos che, altrimenti, facilmente potrebbe scadere nell’eccesso enfatico e appiccicaticcio. Il regista campano raffredda e opacizza il linguaggio, mostra il meccanismo, dichiara la finzione, insomma, ad esempio facendo recitare a un attore tutte le didascalie del copione, o creando precise sfasature drammaturgiche, come racconta la protagonista Laura Marinoni (Blanche): «la didascalia recitata descrive un personaggio che si abbottona la camicetta, mentre l’attrice resta immobile». O lasciando la platea illuminata e accogliendo una scenografia composta da scheletri di mobili, cavi, aste di microfoni, fari e macchinerie che ingombrano il palco e che sono azionati a vista dagli attori. Certo c’è Brecht, dietro a tutto questo, e il suo rifiuto dell’immedesimazione dello spettatore, per un teatro inteso come strumento di consapevolezza sociale e affilata arma di lotta politica. In Latella, figlio di un’epoca affatto diversa, resta una grande, preziosa, sapienza teatrale. E non è poco. (michele pascarella)
17 gennaio, Un tram che si chiama desiderio, regìa di Antonio Latella. Teatro Alighieri, Ravenna. Info: ravennateatro.com/prosa