Vito, a noi gli occhi

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vito-2Quando al telefono chiedo del signor Bicocchi, all’altro capo del filo percepisco un attimo di smarrimento. Ho già toppato?

Mi propongo di accertarmene subito, appena sprofondato sul divano della sua deliziosa abitazione in centro a Bologna. «Amici e familiari mi chiamano Stefano, ma signor Bicocchi – ride – proprio nessuno. In giro per i portici quando invece sento chiamare Vito! so già prima di voltarmi che si tratta di un ammiratore, qualcuno che non conosco personalmente. Ormai è automatico, anche se non mancano le eccezioni: per mio nipote sono Zio Vito e persino mia mamma ogni tanto mi chiama così».

Vito, al secolo Stefano Bicocchi, 53 anni da San Giovanni in Persiceto. Diploma di perito meccanico. Quale corto circuito ti porta sul palco? «Non saprei dirlo. Di sicuro non è una cosa che sognassi da bambino. Però a 21 anni ho deciso di licenziarmi dalla fabbrica in cui ero operaio per iscrivermi alla Scuola di teatro Nuova Scena di Alessandra Galante Garrone. All’epoca in casa c’era bisogno anche del mio stipendio. Devo ringraziare mio nonno che fu il primo a dirmi Proviamoci. Le iscrizioni però erano già chiuse ed il secondo grazie va all’allora assessore alla Cultura di San Giovanni, Mauro Curati (poi penna de l’Unità, ndr), che riuscì a farmi entrare. Una volta lì, capisci subito se è l’attore quello che vuoi fare: otto ore di lezione al giorno, sabato compreso, un esame di sbarramento ogni tre mesi, professori bravissimi ma altrettanto esigenti come Pierre Byland e Jacques Lecoq. Dei 200 partiti col mio corso ci siamo diplomati in sei e lavoriamo stabilmente soltanto in due, io e Francesca Mazza».

Siamo all’alba della geniale stagione col Gran Pavese Varietà dei vari Roversi, Blady, Gemelli Ruggeri… «Geniale sì, se guardi puntate di Lupo Solitario o dell’Araba Fenice funzionano ancora oggi. Ma un motivo c’è: grande lavoro di ideazione e attori bravissimi. Antonio Ricci firmava la regìa ma praticamente gli davamo noi il programma bell’e pronto. Credi che fra vent’anni di Zelig sarà rimasto qualcosa? Adesso poi stanno proprio grattando il fondo del barile…».

Mancano i talenti, le idee o che altro? «Dal almeno dieci anni confondiamo la persona simpatica, che ti fa ridere al bar, con l’attore comico. Tutto si basa sul tormentone e sulle imitazioni. Che sono una truffa: se tu fai l’imitazione di un personaggio che già tutti conoscono parti con un vantaggio del 30%. È assai più difficile crearlo dal nulla un nuovo personaggio. Imitare Berlusconi è banale, diverso è fare Napoleone che parla con la voce di Berlusconi come ho architettato in uno spettacolo: la gente si teneva la pancia dal ridere. Adesso si sale sul palco con un numero di due minuti… Ieri guardavo Bazz di Colorado Cafè: non c’è assolutamente niente dietro, non fa ridere. Discorso diverso per Checco Zalone. Lui mi fa molto ridere, ma ora deve inventare qualcosa di nuovo. So di essere molto severo, ma credo di potermelo permettere. Ora i registi cercano me, scrivono una parte pensandola per me, è una soddisfazione unica. Un attore deve sempre aspirare al massimo livello. Se riesce ad arrivarci anche otto ore di prove scivolano via. Se non ce la fa invece dovrà fare sempre i conti con i compromessi e finirà per incattivirsi… Per riuscire serve pure il colpo di fortuna, il treno giusto. Io sono stato anche fortunato».

Nel successo di un comico ci sono anche cose che non si inventano. Come gli occhi di Vito. «…O la mandibola di Totò, l’obesità di Oliver Hardy… Certamente la fisicità è fondamentale. Attori belli come Andrea Giordana o Gioele Dix restano confinati al brillante, non potranno mai essere comici. Perché io e Maria Pia Timo insieme funzioniamo alla grande? Certamente siamo bravi ma soprattutto siamo due non convenzionali».

A far risaltare lo sguardo di Vito è stata però anche la scelta, almeno inizialmente, di non dargli parola. «Ed è stata una scelta coraggiosa, specie in una televisione che, già negli anni ’80, era quella delle parole a mitraglia. Ma quando hai 22 anni non ti frega di niente e di nessuno, ti butti».

Anche oggi il coraggio non ti manca, almeno a giudicare dall’ultimo spettacolo a cui lavori. «Il medico dei pazzi, per la regìa di Nanni Garella. Recito insieme ai pazienti psichiatrici di Arte e Salute Onlus. Stando sul palco capisci davvero quanto sia sottile la linea che ci separa da quella che è definita pazzia. A ben guardare si tratta solo di debolezze e sensibilità diverse. Durante lo spettacolo non capisci davvero chi è ‘sano’ e chi no. E guarda, ho tanti colleghi – attori bravissimi – che se non avessero fatto questo mestiere sarebbero certamente in cura».

Hai trascorso quasi trent’anni fra teatro, cinema e tv in ogni parte d’Italia. Vogliamo metterci qualche ora di sonno. Resta il tempo per fare altro? «Ah, la cucina. La cucina è fondamentale. Mi cimento in continuazione, tutti i giorni. L’ultimo dell’anno, dopo lo spettacolo Se perdo te 2 ho invitato un gruppo di amici a cena. Avevo iniziato a preparare dal pomeriggio: ho proposto loro dei ravioli al midollo e tartufo nero in ristretto di cappone. Una cosa davvero particolare, credimi».

Cucina tradizionale o molecolare? «L’importante è che non sia mai un rimedio, deve essere passione. Mi piace molto sperimentare ma parto dalla tradizione, dalla cucina povera. Ferran Adrià è l’inventore del molecolare eppure di recente l’ho visto in tv mentre spiegava come preparare un panino con la salsiccia… Straordinario. Nel tempo sono migliorato e posso dire di essere bravo. Ai tempi di InVito a cena per RaiSat Gambero Rosso avevo ospiti in trasmissione amici come Bisio o Iacchetti: gente da 30mila euro a puntata veniva gratis perché sapeva che avrebbe mangiato bene. Una volta Enzo si è commosso fino alle lacrime per un rognone cucinato da mio padre».

Rognone per un ospite? Un piatto coraggioso… «Ah, a tal deg che è coraggioso!».

Vito e Wanda si scambiano le ricette o sono gelosi dei rispettivi segreti? «È un confronto incessante, parliamo di cibo e ristoranti in continuazione. Maria Pia Timo oltre ad essere una bravissima attrice è il tipo di persona perfetta con cui stare a tavola: non solo le piace mangiare, ma capisce perfettamente quel che sta mangiando».

Mai pensato ad una seconda carriera dietro i fornelli? «Assolutamente no, troppo stressante. I cuochi sono persone che passano tutta la loro vita in cucina. Non hanno tempo per altro. Possiamo raccontarcela finché vogliamo con lo stress da palcoscenico, ma il mio lavoro è assai più riposante».

Dopo tre decenni di lavoro però un’idea su come o quando andare in pensione te la sarai fatta? «Fosse per me farei come Ernesto Calindri, che ha lavorato fino all’ultimo. Anzi vado oltre, vorrei morire sul palco, tra gli applausi, mentre cala il sipario… Fantastico. Ho ancora molte idee per il futuro, ma andranno tirate fuori quando sarà il momento: uno dei miei sogni è fare il Cardinal Lambertini, ma non è un ruolo che posso permettermi adesso, è necessario che il corpo sia segnato dal tempo».