BRUCE SPRINGSTEEN – Tunnel of Love

1
1008

SPRINGSTEEN_TUNNEL-OF-LOVE_12X12_site-500x493“Tunnel of Love” è invecchiato con dignità. E questa è già una notizia.

All’epoca mi parve un disastro, una roba da piangere.

Perchè? Tanto per cominciare è uno dei dischi con i peggiori suoni della decade, tanto che potrebbe essere usato come paradigma dei tic sonori di quegli anni (pad onnipresenti, chitarre ridotte a magrissimi sibili medioacuti, batterie acustiche che imitano l’assenza di dinamica di quelle elettroniche, eccetera).

Poi è il primo disco di Springsteen che contiene alcuni pezzi decisamente, inequivocabilmente brutti. Roba da skip, se non fosse che all’epoca lo comprammo in cassetta e lo skip era problematico. Certo, forse anche “The River” aveva un paio di riempitivi, ma nulla che sfiorasse l’imbarazzo autentico di una All that heaven will allow (imbarazzo forse superato forse solo con “Working on a Dream”, nella sua totalità, ma quello ormai è un altro Springsteen).

Per i non addentro le cose di Bruce, diciamo che si arriva a “Tunnel of Love” dopo un decennio e una sfilza di dischi così composta: “Born tu Run”, “Darkness on the Edge of Town”, “The River”, “Nebraska”, “Born in the Usa”. E il “Live ’75-’85”, a suggellare l’Età dell’Oro springsteeniana. Aspettative altine, diciamo.

Mentre tutto questo succede, Bruce – diventato un nome sulla bocca di tutti – non si sottrae al suo ruolo di nuovo Vate degli Stadi, guadagnando attenzioni mediatiche hollywoodiane, sposando e divorziando una modella come fosse uno Stallone qualsiasi, incassando cifre imbarazzanti per qualsiasi working class hero che si rispetti.

I dischi però restano ottimi, e specie sul palco è sempre una benedizione, una vera forza della natura.

“Tunnel of Love” è il segno che qualcosa sta cambiando. Lui è innamorato, di una che però non è sua moglie. E questa sorta di contrasto fra la carne e lo spirito gli innerva subito in apertura un blues del miliardario che, in altri tempi, con altri suoni, avrebbe il peso di un classico: ho tutto, baby, e posso avere tutto, ma non ho te. Ain’t Got You, gran pezzo, e grandissima cover di Solomon Burke, molti anni dopo. Non si può essere saggi e innamorati al tempo stesso, dice Dylan, ma Bruce è un brav’uomo e ci prova. Tougher Than The Rest, ballata eccezionale. Sogno da sempre una cover di Tom Waits di questo pezzo, con quel suono scarno e ossuto tipo Hold On.

Poi qualcosa nel disco, e forse persino nella visione ideale di Bruce si sfalda.

Il resto del disco è modesto. Non brutto: modesto. Springsteen-autore comincia (forse senza rendersene conto) a perdere forza, e ad aspirare al ruolo di “rocker per famiglie” che oggi incarna alla perfezione. Il sogno e la forza del sogno, l’utopia del sogno che ha reso i dischi precedenti dei totem generazionali è pian piano sostituita da un buonsenso terra-terra, da bravo americano medio, reso con parole e immagini più o meno buone, ma mai più memorabili. Ragiona, come direbbe Paolo Conte, su tutta la sua stanchezza e la sua guittezza: Two Faces, One Step Up, e pure Brilliant Disguise, pezzi dignitosi e poco più, con l’ultimo della serie che avrebbe potuto avere un altro peso, ma si ferma sulla soglia della grande pop song, e non entra.

Sennò scrive folk con il pilota automatico (Cautious Man), o prova a confezionare un pop adulto ma pare farlo per sentito dire (Walk Like a Man, Valentine’s Day e anche Tunnel of Love che pure ha una scrittura ritmica e un fraseggio vocale fra i migliori della carriera di Bruce)

Spare Parts, l’unico pezzo quasi rock del disco, è violentato dai suoni terribili dell’epoca. Ma potrebbe essere, in potenza, il secondo blues convincente del disco.

Se qualcuno interpretasse “Tunnel of Love” come l’inizio della fine springsteeniana, probabilmente non avrebbe torto. Anche se il tour seguente fu una manna dal cielo.

Da questo disco in poi Springsteen non ha più fatto dischi “pesanti” nella loro totalità. Non ci sono più stati totem. Ha scritto presumibilmente 10-15 pezzi molto buoni, sparsi in altrettanti dischi, e in 25 anni circa, ma non c’è più stato un disco che abbia cambiato le carte in tavola, come era accaduto nel decennio prima.

Bruce è ancora in giro, fa ancora concerti di tre ore, piace ancora a moltissime persone, e questo è un punto a suo favore.

Ma un certo Bruce – quello che dava la scossa solo a sentirlo nominare – è finito qua, a metà degli ’80. Perso nel tunnel dell’amore, in tour con la moglie, a sostituire il fuoco autentico con la buona volontà.

Chi non l’ha visto in questi anni non sa di cosa parliamo, e giustamente si accontenta. Peccato.

1 COMMENT

  1. condivido in parte…per me One step up è un bellissimo brano e mi piace anche Walk like a man. Se avesse emesso Lucky Man (lato b del singolo Brilliant Disguise) al posto di When you’re alone ad esempio…

Comments are closed.