Il voto di vastità

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Non sono molto brava con i miei idoli.

Anni fa, a Milano, dopo un concerto, avrei potuto stringere la mano a Lou Reed, forse persino scambiare due battute.

Niente da fare: paralisi. Una paura fottuta di fare una magra figura, di non sapere dire nulla di intelligente. Il terrore che un momento sarebbe potuto diventare un’imbarazzante eternità.

Ho sempre guardato con diffidenza-mista-invidia il fan che sa chiedere una foto, una firma, una battuta. E se le fa bastare.

In fondo quello con il Maestro dovrebbe essere un Incontro, ma quasi sempre è un attimo che rivela tutta la sua superficialità, lasciando il vuoto attorno.

Poco tempo fa un’amica comune mi presenta Bergonzoni. Alessandro Bergonzoni, che non ha scritto Sweet Jane ma che è comunque stimato Maestro delle parole e dei pensieri

Come una liceale alla prima interrogazione ho ripensato alla sera di Lou Reed, alla paralisi del verbo, a due concetti decenti da spendere nel secondo a mia disposizione. Prima ancora di partire con il discorsino (Salve sono Stefania, insieme ad un gruppo di amici pubblichiamo un mensile. Lo conosce? Ci piacerebbe intervistarla) Bergonzoni ha già capito tutto, mi precede, allunga la mano e dice: «Salve, sono Alessandro Bergonzoni sono anni che aspetto di essere intervistato da Gagarin».

Empatico o telepatico (o semplicemente informato) che sia il suo slancio, apprezziamo assai e cogliamo al volo. Ed eccoci qua.

Quando ha deciso di fare il voto di vastità?

«Non l’ho deciso io ma è stato deciso dal momento. Quando si dice è arrivato il momento nessuno va mai ad accoglierlo. Io ci ho provato e davanti mi sono trovato un’idea: quella di allargare la nostra grandezza (che non ha niente a che vedere con le manie di grandezza), di aumentare l’azione troppo corta e rattrappita del conoscere, dell’agire e del pensare. Il problema in questo momento non sono solo le nostre ristrettezze economiche, ma la ristrettezza umana intesa come mancanza di sovrumano. Degli esempi? Non aspettare la morte di qualcuno per leggere la fine, non aspettare la nostra malattia per tradurre il dolore, non essere una donna o avere una figlia femmina per cominciare a parlare della violenza sulle donne».

L’abbiamo ascoltata in interventi sulla creatività, contro la riduzione della complessità, sull’innovazione, il cambiamento, temi importanti per lo sviluppo sociale. Anche nel suo ultimo spettacolo si ride, ma si pensa molto. Si sente più comico, attore, poeta, filosofo, artista o funambolo della parola?

«Partendo da quello che ho detto prima mi contorco alla sola idea che ci si stupisca, come spesso mi dicono, del fatto che faccia ridere e pensare. Sarebbe come meravigliarsi del fatto che un uomo cammina e parla, guarda e mangia, corre e ricorda. Stanco vivo di pensare a un mestiere solo, a una vita sola e di credere ancora di poter essere solo attori, comici, medici o poeti e non contemporaneamente tutto. Provo a raccontare che cosa può fare chi si definisce artista, ma anche chi si dovrebbe definire persona. P.S. Funambolo mi offende, mi fa sentire come un alce in deltaplano».

Alla fine degli anni ’80, grazie alla tv, è stato conosciuto dal grande pubblico. Poi, forse, è rimasto l’unico attore comico che non ha ceduto al grande media. O è la tv che non ha più ceduto a lei? È ancora così potente o Internet la soppianterà del tutto?

«È vero: Costanzo, e prima ancora la Goggi, senza rimorso alcuno mi hanno dato un trampolino (sottolineo che in 20 anni di Costanzo Show c’ero in 20 puntate!). Da qui a dovere riconoscenza al mezzo e non alle persone ce ne passa. Anche perché il mezzo fortunatamente o sfortunatamente ha affrontato e affronta un suicidio quotidiano, un macello semitotale. Con qualche eccezione, che comunque mai potrà salvarla. Ovviamente, anche aiutato da una mia sincera incapacità di saperla fare, ho scelto di non frequentarla, anche se sono arrivate dignitose proposte (e pure molto meno dignitose). È proprio il media tv in questione che è malato ed è inguaribile, in assoluto. Internet? L’ha già doppiata nel bene e nel così così, ma trovo devastante l’uso dei social network che fa credere a chiunque di essere qualcosa attraverso un click per chi sa quale amicizia, in mezzo a foto di case, panini, cani, vacanze… Certo Internet ti permette più scelta ma devi essere capace di essere libero, anche se per questo nessun mezzo può servire».

Negli ultimi anni la sua ricerca è sconfinata nelle arti visive. Come si approccia a questo linguaggio silenzioso? Quali le analogie, quali le differenze?

«Da ultimo arrivato nel mondo dell’arte, con nessuna modestia, ma con tutte le umiltà del caso (e non per hobby o passatempo), mi sono reso conto di altri occhi e di altre mani, di altra luce e di altre visioni che partendo dalla parola scritta mi stanno accompagnando mostra per mostra attraverso un altro rappresentare. Certo il raffigurare, lo scolpire e l’istallare hanno tempi e risoluzioni che nulla hanno a che vedere col metterci la faccia, con la tua voce o con una platea che reagisce. È in un nuovo stato di silenzio appunto che si comincia un operare a me sconosciuto e illimitato».

Qual è la forza dell’arte, il confronto con la diversità?

«In molti incontri che faccio negli ospedali, nelle carceri o nelle scuole mi piace parlare dell’energia e della propulsione che l’arte fa deflagrare, anche dove l’arte sembra non possa entrare se non come scenografia o sfondo. In ogni diversità, malattia, in ogni metamorfosi l’arte chiede quella visionarietà, quell’impossibile quell’impensabile che può dilatare la realtà fino a farla diventare trascendenza, spirito e anima. Cosa c’entra tutto questo se uno vive una condizione materiale di sopruso o di danno? Sta proprio qui il mistero della profondità della ricerca artistica in ogni moto di vita».

La differenza tra politica e antropologia?

«Se con politica si intende ciò che ci si è materializzato davanti da più di 50 anni ce n’è un universo, a meno che non si voglia analizzare proprio antropologicamente questa differenza e i suoi patologici esempi. Vorrei pensare a un’antropologia, invece, che resusciti con la sua sapienza un popolo, una tribù, una genia di uomini, di persone che non hanno più la capacità di pensarsi come esseri».

In questo senso l’arte ci salverà?

«Stanchino di aspettare che qualcuno possa salvare qualcun altro, chiedo a ognuno di noi di diventare prima artista salvatore di sé stesso, dottore, architetto, poeta poi di andare in piazza a protestare per reagire e pretendere. Ma è in quel prima, in cui nasce la rivelazione, che si mettono le basi di ogni rivoluzione. È votando ogni giorno, diventando noi i ministri, i governatori e i presidenti che si cambia ciò che pretendiamo altri cambino».