Troppo Forte!

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copertinaFranco Forte è una di quelle persone che, per raggiungere il proprio obiettivo, ha dovuto prima rinunciare ad altre importanti tappe della propria vita. Uscire dallo schema per reinventarsi e dedicarsi al suo sogno: la scrittura. In realtà è la sintesi di un lungo percorso che lo ha portato a essere un professionista poliedrico di questo mondo: giornalista, scrittore (13 romanzi negli ultimi 23 anni), sceneggiatore (Distretto di Polizia lo conoscono anche gli allergici alle fiction), editor ed editore in proprio.

Ma partiamo dagli inizi. Quali letture e quali autori hanno formato le basi del futuro di Franco Forte? «Io ho sempre letto di tutto, passando dall’Ulisse di Joyce alla fantascienza di Urania, e dunque la mia formazione è stata la più ampia possibile, anche se ci sono alcuni autori che reputo fondamentali, e a cui devo molti stimoli che sono stati capaci di fare da carburante per la mia passione/ossessione per la scrittura: primo fra tutti Italo Calvino, e poi Beppe Fenoglio, Carlo Cassola, Hemingway ma anche Stephen King ed Edgar Allan Poe. Abbastanza di che alimentarsi con piatti sopraffini ed estremamente variegati».

Da lettore a scrittore, quando ha sentito l’esigenza di narrare? «Il processo credo sia istintivo e naturale per ciascuno di noi, indipendentemente dal fatto che poi si decida di fare gli scrittori sul serio. Tutti sentiamo l’esigenza di comunicare agli altri emozioni, pensieri, suggestioni. Io l’ho fatto attraverso la scrittura, fin da quando ho potuto mettere insieme frasi di senso compiuto. E ho avuto la fortuna di raggiungere presto dei risultati interessanti, vendendo il mio primo racconto a una rivista Mondadori quando non avevo ancora compiuto 18 anni. Sono momenti importanti, che danno carica e voglia di continuare, e io me ne sono alimentato ogni volta che ho potuto».

Ci racconta le emozioni della prima pubblicazione? «Come detto, non avevo ancora 18 anni. Inviai un racconto alla rivista Auto Oggi di Mondadori: un raccontino umoristico ambientato ovviamente nel mondo delle automobili. All’epoca la rivista, che aveva grandissima diffusione in edicola, pubblicava un racconto a settimana, e li remunerava molto bene. Quando riuscii a farmi selezionare e ricevetti a casa l’assegno (che corrispondeva quasi a un mese di stipendio di mio padre), mi sentii davvero, per la prima volta, uno scrittore professionista, anche se sapevo che per me la strada sarebbe stata ancora molto lunga. Ma lo sprone fu importante, e mi servì per capire che non si può soltanto scrivere sull’onda dell’emozione, come fanno in tanti (troppi): bisogna assumere un atteggiamento più professionale, che significa capire chi sono i propri interlocutori, quale genere di opere pubblicano (e dunque che cosa sono disposti a esaminare) e con quali caratteristiche anche tipografiche (per esempio, se una rivista pubblica racconti in cui i dialoghi sono rappresentati dai trattini lunghi, inutile mandare un racconto in cui si usano le virgolette, sarebbe poco professionale). Purtroppo, la fretta e la convinzione di saper scrivere dei capolavori senza colpo ferire, portano molti aspiranti scrittori a credere di poter spedire qualsiasi cosa a chiunque, fregandosene delle aspettative dei propri interlocutori, e questo provoca molti rifiuti a prescindere, senza che gli autori neppure se ne rendano conto. Io, per fortuna, ho capito presto che certi errori sarebbe stato meglio non commetterli».

Del Franco Forte esordiente che cosa ricorda? E che cosa le è rimasto? «Ricordo la grande emozione di vedere pubblicato il mio nome, soprattutto quando, nel 1990, uscì il mio primo romanzo, con l’Editrice Nord. Si tratta di una suggestione che si ripete ancora, ogni volta che prendo in mano quel libro, a dimostrazione che la narrativa sa dare soddisfazioni capaci di protrarsi nel tempo. E ancora oggi, quando pubblico qualcosa, non importa se l’ennesimo romanzo per Mondadori o un racconto sul web, quel miscuglio di emozione, gioia e orgoglio che ho provato nel 1990 si ripete puntuale e rinnova il desiderio di continuare a scrivere. Credo che non ci sia niente di più emozionante e coinvolgente dell’esperienza di ammirare un proprio libro esposto in libreria, e magari, come mi è accaduto diverse volte, di vederlo in mano a qualcuno al mare, o in metropolitana, intento a leggerlo senza sapere che l’autore lo sta guardando».

Quando ha capito che sarebbe riuscito a vivere di scrittura? «Non l’ho capito, è semplicemente avvenuto. Dovendo mantenere anche una moglie e due figli, per me non si è trattato di un processo semplice. Come giornalista professionista e direttore di diverse testate potevo già dire da tempo di essere uno di quelli che campano scrivendo. Ma da quando ho abbandonato il giornalismo per dedicarmi a tempo pieno alla narrativa e alle sceneggiature, pur affiancandovi l’attività di editor ed editore, allora ho capito che il traguardo che mi ero prefissato fin da ragazzo era finalmente stato raggiunto. Ma non c’è da riposare sugli allori, perché questo genere di lavoro non si alimenta di rendita, se non in rari (e fortunati) casi».

Ha pubblicato con diverse case editrici: Editrice Nord, Keltia, Marco Tropea, Mursia e Mondadori. Si può dire che la svolta è arrivata col romanzo L’orda d’oro edito da Mondadori nel 2000? «Quella è stata una svolta… mancata. Nel senso che il romanzo doveva uscire, primo di una trilogia, nella collana super bestseller I faraoni, dove già era comparso il Ramses di Christian Jacq, ma poi, a causa di uscite poco felici precedenti alla mia, la collana venne chiusa, e io restai con un ottimo contratto in mano ma la pubblicazione bloccata. Il romanzo poi uscì in sordina, e nessuno se ne accorse. Ben altra cosa se fosse uscito ne I faraoni, che avevano una tiratura minima di 50.000 copie a volume. Comunque, poi mi sono rifatto, soprattutto con romanzi come Carthago, che è stato per quattro settimane nella classifica dei romanzi italiani più venduti, e con Il segno dell’untore, che ha avuto un grande successo di pubblico».

È stato autore di fiction come Distretto di Polizia e R.I.S. – Delitti imperfetti. Quali sono le principali differenze con la narrativa? «Semplice: quando si sceneggia, si scrive per altri, e ciò che si produce non ti appartiene. Sovente guardavo in televisione le puntate scritte da me e le trovavo molto cambiate. Questo perché lo sceneggiatore scrive e consegna alla produzione, poi viene dimenticato e produttore, regista, attori, tutti quelli che possono ci rimettono mano e danno vita a qualcosa che spesso è molto diverso dall’originale. Ma poco importa, perché si sceneggia per soldi, non per altro. Il romanzo, invece, è cosa propria e resta tale fino a quando non finisce in pasto ai lettori. Una differenza sostanziale…».

Ritorniamo alla scrittura. Molti dei questi romanzi sono ambientati a Milano, sua città natale. Altri importanti autori hanno un forte legame con il luogo di origine, Joe R. Lansdale col Texas, Stepehn King col Maine. Ci può parlare del binomio scrittore/luogo e della sua importanza? «Io tengo molto a Milano. La conosco bene, intimamente, ed è naturale avere voglia di raccontarla agli altri. Del resto, una delle regole della buona scrittura dice che si dovrebbe scrivere di ciò che si conosce. Meglio dunque che sia un milanese a scrivere di Milano, e non il solito americano a caccia di luoghi esotici per il suo ultimo bestseller».

Parliamo del suo ultimo romanzo, Il segno dell’untore. Un giallo storico ambientato nella Milano del 1576 piagata dalla peste con protagonista il notaio criminale Niccolò Taverna. In altre interviste ha sottolineato la mole di lavoro di ricerca e studio. Quanto tempo ha dedicato a questa fase e come è nata la storia? «Scrivere romanzi storici significa prima di tutto studiare. Studiare tanto e in modo approfondito. Io ho cominciato a scrivere della Milano del 1500 dopo più di dieci anni di ricerche e studi. Quando mi sono imbattuto nella figura del notaio criminale, un funzionario del Tribunale di Giustizia che operava nel Ducato di Milano in quel periodo, ho capito di avere per le mani una figura finalmente inedita di investigatore, come ormai non capita più di vederne nei romanzi gialli e thriller. E così ho approfondito con documenti originali dell’epoca, ho battuto a tappeto le biblioteche di Milano, anche quelle religiose, dove sono custoditi veri tesori, e sono riuscito a ridare corpo e sostanza a questa figura dimenticata della storia, che si muoveva in una Milano falcidiata dalla peste per effettuare indagini criminali di altissimo livello, con tecniche di investigazione modernissime».

Infatti Niccolò Taverna utilizza tecniche degne di un R.I.S. «È proprio così e nei miei romanzi non c’è nulla di inventato, è tutto preso dai documenti storiografici. Analisi dei luoghi del crimine, studio delle macchie di sangue, balistica (per colpi di archibugio e tiri d’arco e di balestra) e altre cose che i notai criminali conoscevano molto bene, consentendo loro di risolvere casi molto difficili».

In questo romanzo ha deciso per un tempo cinematografico, la storia si svolge in dodici ore. Quanto ha influito il ruolo di sceneggiatore in questa scelta? «Ovviamente mentre scrivevo visualizzavo nella mente le sequenze di un possibile film tratto dalla storia che stavo imbastendo. È un sistema che uso spesso, perché mi consente di dare ritmo e vitalità alla storia, senza dilungarmi troppo in scene inutili o capaci di rallentare la lettura. E poi, avevo sempre avuto questa ambizione: scrivere un giallo in cui l’investigatore deve risolvere un caso (anzi, due!) nel giro di 12 ore, dalla mattina alla sera. E Niccolò Taverna ci è riuscito benissimo».

Sappiamo che ha appena terminato il secondo romanzo con protagonista Niccolò Taverna. Anticipazioni? «È una storia abbastanza particolare: il primo caso di cui si sappia di rapimento di ostaggi e di negoziazione con i rapitori. Ovviamente, in questo caso, da parte di Niccolò Taverna, che deve anche occuparsi di scoprire chi è il misterioso assassino che uccide delle vittime a caso in città sfruttando i dardi micidiali di una balestra».

Nei suoi lavori è presente una forte componente romance. Sappiamo che ha a che fare con i suoi esordi… «No, gli esordi non c’entrano. È vero, ho scritto tante storie romance, quando ero più giovane, sfruttando uno pseudonimo femminile, ma l’esperienza mi è servita per capire i meccanismi delle storie d’amore, che comunque trovano sempre posto nei miei romanzi, semplicemente perché sono momenti importanti della vita reale, e dunque sarebbe un’assurdità dimenticarsene nei libri».

Dal 2011 è direttore editoriale delle collane da edicola Mondadori: I Gialli Mondadori, Urania, Segretissimo. Che situazione ha trovato e cosa pensa di aver portato? «Sono parecchio orgoglioso di sedere al timone di alcune delle collane più prestigiose del nostro Paese, sicuramente quelle che hanno fatto la storia dei loro rispettivi generi di riferimento. Da ragazzo sono cresciuto a pane e Urania e Gialli Mondadori… L’edicola è un mondo strano, sovraffollato da mille prodotti in vendita, che però ha un enorme pregio: i prezzi contenuti. I nostri libri sono volumi a tutti gli effetti, con grafica curata ed edizioni di pregio, dalla carta usata al formato, che sotto la mia direzione è stato uniformato per tutte le collane, in modo da renderle più riconoscibili. E costano tutti meno di cinque euro, il che, in tempo di crisi, non è un fattore di poco conto. Eppure la cura editoriale e redazionale è ai massimi livelli, posso garantirlo: traduzioni, acquisizioni dei diritti, revisioni e correzione delle bozze sono processi ben curati, che fanno di questi libri prodotti che nulla hanno da invidiare a quelli da libreria. La novità principale che ho introdotto da quando sono in Mondadori, è la realizzazione di tutte le collane anche in formato ebook, che ormai era diventata imprescindibile. Al prezzo di 2,99 euro, i Gialli, Urania e Segretissimo sono tutti disponibili sui principali store online in formato digitale».

È anche il direttore della rivista Writers Magazine Italia nata per gli aspiranti scrittori, ricca di istruzioni e di opportunità per farsi pubblicare… «La WMI è una rivista unica nel suo genere, e l’abbinamento fra prodotto cartaceo e la sua estensione web (soprattutto il forum di discussione) è ormai diventato uno strumento formidabile per chiunque desideri avvicinarsi in maniera professionale alla scrittura. E questo non lo dico solo io, lo dimostrano i tanti autori che ci frequentano e che con il tempo stanno ottenendo ottimi risultati professionali, arrivando a pubblicare in antologie e in collane prestigiose. Il merito è soprattutto loro, questo è evidente, ma diciamo che la partecipazione alle iniziative della WMI ha dato loro modo di conoscere meglio il grado del proprio talento e, attraverso le tecniche della scrittura professionale, valorizzarlo per arrivare a risultati sempre più importanti. È questo lo scopo che ci prefiggiamo: far conoscere agli autori il mondo editoriale e quello della scrittura professionale, per dare una chance ai migliori di farsi leggere da chi conta e, naturalmente, scegliere per la pubblicazione».

In Italia ci sono più scrittori che lettori, a differenza dei principali paesi del mondo. Un editore come riesce ad affrontare questa anomalia? «Contando sul fatto che quei pochi lettori sono lettori forti, che acquistano un gran numero di libri all’anno. Senza di loro, saremmo tutti morti… Quello che più dispiace, però, è che tantissimi aspiranti scrittori pretendono di essere letti e pubblicati, ma da parte loro non leggono quasi nulla, meno che mai libri scritti da altri esordienti italiani, a meno che non finiscano nella lista dei bestseller. Come si fa a pretendere di essere letti, se l’esempio che si dà è quello di ignorare i colleghi che ce la fanno? Molti esordienti, invece, pensano di non avere bisogno di leggere, che il confronto con gli altri scrittori sia inutile, e che tutto gli sia dovuto per qualche misterioso motivo».

Lei è l’ideatore, nonché curatore, della famosa raccolta 365 racconti per un anno edito da Delos Books, iniziata nel 2010 con 365 racconti erotici per un anno e poi proseguita con 365 racconti horror per un anno, 365 racconti sulla fine del mondo e 365 storie d’amore. Un contest in cui aspiranti scrittori possono confrontarsi con professionisti del settore. Il primo di settembre partirà la selezione per la prossima raccolta, tema il Natale«Esatto. Queste antologie hanno un solo punto fermo: la severità nelle selezioni, perché quello che vogliamo è pubblicare le migliori antologie possibili. E il successo che sta avendo questo format ci conferma che è la strada giusta. Il bello è che tutti possono partecipare e mettersi in gioco, basta andare sul forum della WMI (www.writersmagazine.it/forum) e seguire il regolamento. A quel punto, è solo la qualità di ciò che si scrive ciò che veramente conta».

Vorremmo concludere rimanendo sugli aspiranti scrittori. Molti autori famosi compilano il proprio decalogo dello scrittore. A lei chiediamo invece, di stilare il decalogo dell’aspirante scrittore. Quello che non si deve fare per essere pubblicati. Non essendo sul monte Sion bensì su Gagarin, le leggi possono essere diverse da dieci… «Un decalogo sarebbe noioso. Riassumo più brevemente. Per diventare scrittori occorre prima di tutto leggere, spesso e di tutto, e poi scrivere, con la massima regolarità possibile, anche quando non si è folgorati dall’ispirazione creativa (cosa che a un professionista non capita quasi mai). E poi occorre essere determinati e consapevoli delle proprie capacità, ma anche abbastanza duttili e modesti da sapersi mettere in gioco e in discussione, per imparare dai propri errori e crescere. Infine, occorre avere una buona cognizione del mercato editoriale, dei suoi meccanismi, di come funziona il circuito che porta un testo dalla scrivania dell’autore fin su quella dell’editore e, poi, sugli scaffali delle librerie e sul comodino accanto al letto del lettore. Una filiera, questa, che si può conoscere frequentando ambienti che ne parlano e che spiegano i dietro le quinte, come la Writers Magazine Italia. L’ignoranza, in relazione a queste cose, può solo contribuire ad allontanare il sogno della pubblicazione».