La stampa musicale inglese stravede per quattro ragazze londinesi: giovanissime, maledettamente belle, rigorosamente in nero, cattivissime. Il loro album di debutto Silence Yourself ha fatto incetta di premi e nomination, trainato dalle sonorità cupe e tribali di un nuovo post-punk revival. Ce n’è abbastanza per sentire odore di fuffa anche al di qua della Manica. Poi però succede che le Savages aprono il Primavera Festival di Barcellona, sotto un sole che dovrebbe stridere con la loro immagine oscura, ma che invece la esalta, lasciando indelebile la sensazione di un gruppo che farà parlare a lungo anche per le doti musicali. Abbiamo cercato di capire qualcosa di più parlandone con Ayşe Hassan, bassista del gruppo in arrivo in Italia per tre date molto attese. Ma ci siamo riusciti davvero? A voi giudicare.
Il successo per le Savages è arrivato subito, a pochi mesi dalla loro nascita, quali sono le ragioni?
«In primo luogo dovresti definire la parola successo. Se intendi quello di realizzare Silence Yourself come ci eravamo prefissate, allora sì, è stato un successo. È il nostro primo album, ci siamo prese rischi, abbiamo fatto scelte difficili e cercato di evitare distrazioni dall’esterno. Abbiamo seguito il nostro istinto e partorito esattamente la musica che sentivamo dentro. Per me il successo sarà raggiunto solo continuando a suonare negli anni a venire».
Silence Yourself ha ottenuto ottime recensioni e compare in molte classiche dei migliori album 2013, ve lo aspettavate?
«Quando creiamo musica insieme lo facciamo senza aspettative. È fantastico che questo disco sia importante per tanta gente, così come è stato uno spartiacque per noi come band».
Alcuni critici però sostengono che facciate musica già sentita e vi paragonano sistematicamente a Joy Division o Siouxsie & The Banshees. Che ne pensi? «È un aspetto interessante, visto che tutte e quattro abbiamo gusti molto diversi e non parlo solo di musica ma anche di letteratura o arte in generale. Comunque echi di ciò che abbiamo ascoltato in passato possono sicuramente venir fuori, magari inconsciamente, e i gruppi che citi ne fanno parte. Non è comunque una cosa studiata a tavolino».
Vi riconoscete nella definizione di band femminista?
«Ci vengono fatte molte domande su questo argomento. Abbiamo tanti riferimenti, anche non artistici, del passato rappresentati da donne forti, magari senza nemmeno rendercene conto. C’è tanto sessimo nella società odierna, ma io credo che invece di combatterlo sia meglio aiutare le persone a sentirsi più forti, a credere maggiormente in se stesse e a rispettare la propria persona. Quando parlo con ragazze molto giovani che ci dicono che amano ciò che facciamo mi fa sentire felice ed è splendido».
A questo proposito c’è qualcosa che hai letto o sentito sulle Savages che non ti è piaciuto? «Tantissime. Ci saranno sempre cose scritte su di noi che sono inesatte e che potrebbero non piacerci, la cosa importante è non farsene condizionare e sapere che le persone vicine a noi siano abbastanza intelligenti da pensare di testa loro».
Hai avuto tempo di ascoltare musica nel 2013? Cosa ti è piaciuto?
«L’Ep Antique degli A Dead Forest Index. Ha un corpo sonoro imponente. Abbiamo anche avuto modo di ascoltarlo dal vivo quando ci hanno fatto da spalla nel tour nel Regno Unito. Ho apprezzato molto anche Dan Deacon dal vivo a Oakland, è stata un’esperienza quasi mistica guardare la folla impazzire all’ascolto della sua musica».
Quali sono i bassisti con cui sei cresciuta e che ti hanno ispirata?
«John Deacon dei Queen e John Paul Jones dei Led Zeppelin. Come vedi niente post-punk».
State registrando nuovi brani? Li suonerete nelle date italiane?
«Sì, stiamo scrivendo nuovo materiale e ci piace sviluppare le canzoni dal vivo, cercando la struttura musicale giusta. Per noi è fondamentale coinvolgere il pubblico nel processo di creazione di nuove canzoni».
GIANMARCO PARI
26 febbraio, Bologna, Savages, Locomotiv Club, via Serlio, ore 22, info: 348 0833345, locomotivclub.it
Ho letto in questo articolo che anche i musicisti inglesi
sono scesi per sostenere l’equo compenso
per copia privata. Quindi non è un affare
solo italiano?!?
Ciao Riccardo. Anche io ho letto qualcosa sull’argomento, pare insomma che non sia solo affare italiano. Però Ayse Hassan non ne accenna in questa intervista (a meno che mi sia perso qualcosa 🙂 Ciao!
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