L’arte della fuga

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Le parole chiave sono tre: welfare, nonna e Internet. In apparenza i tre significanti sembrano senza nessun collegamento. Ma se vi raccontassi di come mi sono ritrovato a conoscere una ragazza, che non ho cercato, attraverso mia nonna, ci credereste? E se precisassi che mia nonna, alla veneranda età di 76 anni, ha imparato ad usare il computer e ha contattato una ragazza per suo nipote che vede solo e triste, dopo essere stato mollato dalla ragazza il giorno del suo compleanno, ci credereste ancora?

Nessun sussidio di disoccupazione, nessun riparo dalla solitudine. Il mio welfare è Tina, un’ottuagenaria signora con i capelli rossi.

Quindi non ho scampo, devo presentarmi all’appuntamento al buio e farla felice. Che nipote sarei se le spezzassi il cuore?

barbie

L’appuntamento è alle undici in piazza Duomo. Una giornata di sole. Abbiamo entrambi i rispettivi numeri di cellulare in caso non ci riuscissimo a trovare. Ho scelto io il luogo dell’incontro. Ero convinto di saper riconoscere una persona in attesa in una piazza. Ero convinto che avrei cercato una persona che armeggiava con i capelli, che di tanto in tanto si sarebbe guardata la punta delle scarpe con lo sguardo curioso rivolto a quel qualcuno che la sta cercando. Così è stato. Mirella se ne sta avvolta in un Moncler dal quale escono due gambette ciccione e un paio di sneakers ai piedi. Ha gli occhi azzurri e una dentatura da copertina di quelle riviste che trovi dal dentista, mentre attendi la tortura dell’uomo in bianco e rilassi la mente con le pruderie. Io me ne sto appollaiato a distanza di sicurezza, guardando la scena di questo umano con il suo carico di aspettative, il suo mondo un momento prima di un ipotetico svelamento. Non so che fare. Non so veramente come affrontare il momento. A parte il fatto che non potrei raccontare a nessuno questa cosa dell’appuntamento, io, che ho sempre preso in giro chiunque si sottoponesse a questo genere di tristi burle, a questi fantomatici riti di ricerca da internauta. Non so se scappare o meno. Ma questo non è il lato peggiore della situazione. È che veramente vorrei fuggire. Mentre mi avvicino a lei, con il sole che mi ronza intorno come un cagnolino che ha voglia di giocare, preparo il mio piano B. Un amico che mi chiamerà con una notizia terribile e io dovrò accorrere lasciandola lì come un pesce dissalato sul lavabo, oppure se lei rimarrà stregata dal mio sguardo e io no, l’invenzione di una partenza la settimana seguente per Tokyo, causa lavoro. Ma ormai è troppo tardi. Sono ad un metro da lei.

«Ciao» mi fa lei, arricciando il viso e stringendo gli occhi come un’eschimese.

«Ciao, tu sei… – mentre cerco di sorridere traducendo l’imbarazzo in fascino (non so poi perché, la voglio conquistare?) – tu saresti Wolfango…».

«E tu Mirella?».

Le mani si abbracciano, le guance si sfiorano e io mio allontano un attimo.

Odio i contatti ravvicinati con gli sconosciuti.

«Perché sarei? Sono» – le dico puntigliosamente correggendo la sua precedente forma condizionale, rendendomi conto di avere fatto l’antipatico sul serio.

«Sì, insomma, era quello che volevo dire», mi risponde tra lo scherno e il sorriso armato.

Un caffè potrebbe risollevare il momento critico dell’incontro, il cul-de-sac emotivo che ci ha fatto precipitare in un buco di tratti fisiognomici, tempi verbali e costrutti sulla sofferenza della condizione umana. Abbiamo il passo aritmico di due cuori che battono sordi sul pavé emiliano tirato a lucido in occasione delle feste del santo patrono. Mi guarda come fossi il primo uomo sulla Terra. Anche io lo faccio, ma forse con maggiore discrezione di quanto lei si sforzi di fare. Mi sorride cercando una complicità. Mi accorgo ben presto della patologia che le infuria dentro: la logorrea. Non la smette mai di parlare, nell’ordine: il freddo che quest’anno è giunto prima degli altri anni, il deprecabile flusso circolatorio nella zona del centro e del fatto che le auto stiano inquinando il mondo nel quale viviamo, l’importanza del multiculturalismo nella società moderna, la noia e la pratica dello smalto sulle unghie come rimedio al tedio della solitudine, la profondità delle canzoni dei Baustelle e il genio che si annida dentro il saggio di Odifreddi. Le mie doti di ascoltatore, che ero solito ritenere uno dei miei punti d’orgoglio, mi abbandonano in una escrescenza che si traduce in turpiloquio per il pakistano che rovinosamente cerca di rifilarci un accendino a forma di water e poi in rapida successione un vibromassaggiatore che io faccio finta di comprargli per poi rivenderglielo dopo qualche minuto, dentro una scenetta grottesca e maleducata.

«Certo che sei un tipo strano, tu» mi dice guardandomi per un attimo, ma non tralasciando mai quella spiccata dolcezza dietro l’azzurro dei suoi occhi. Vorrei uscire con una frase alla Bogart, in barba a tutti i melodrammi in programmazione nelle sale, ma il rischio di farla fuggire sarebbe palpabile.

«Perché dici?» Rispondo guardando sempre da un’altra parte, guardando sempre qualcosa oltre di lei.

«Sembri avere paura di quello sei, scusa se te lo dico, sai… non vorrei offenderti o neanche psicanalizzarti, ma perché non ti lasci vivere un poco?».

Il gelo diviene ghiaccio e le mie labbra dure come il pavimento sul quale ci stiamo avvicendando.

«Non è così, è solamente la mia timidezza forse».

Ridiamo insieme, come due ragazzini forse, anche se la maggiore età l’abbiamo passata da un pezzo ormai.

È proprio in quel momento che incontriamo Paolo, un signore sulla sessantina, ex fotografo di moda che ho conosciuto una sera al bar dopo qualche bicchiere di vino e molte parole sull’arte e la vita.

«Come stai?» Gli sorrido sganasciando le vocali.

«Tutto bene a parte i miei anni, questo Paese che non va da nessuna parte e una tiroide che dovrò operare a breve» risponde sardonico come al solito.

«Non stare a fare il lamentone, la vecchia caffettiera, si vede che stai in forma» gli dico, rincuorandolo, facendo la parte dello sprezzante ottimista, che non sono.

Gli presento Mirella come la cugina di Sondrio, e lui commenta con complimenti sul viso molto fotogenico di lei, da ex fotografo di moda ed erotomane incallito, quale tuttora è.

«Ragazzi ricordatevi due cose – ci dice, spalancando le braccia – Voi giovani siete i dadaisti del futuro e ricordatevi che: è meglio stare da soli che con nessuno» poi si accartoccia in una risata deflagrante satura di amarezza. Ci saluta, accomiatandosi lentamente e sparendo in dissolvenza lungo via Garibaldi.

«Mi piace quel signore» dice Mirella, sorprendendomi un poco.

«Paolo è un messaggero, è uno che in mezzo ad un sacco di stronzate è capace di dirti la cosa che ti risolve la giornata, anche a me piace, ma per non più di dieci minuti, perché poi parte con elegie di vario genere dove il rancore toglie ogni bellezza».

Passeggiamo alla ricerca di un bar che non troviamo, parlando del suo lavoro (è una massaggiatrice sportiva) e del mio, argomento sul quale preferisco rimanere vago. Quando il suo cellulare suona e la faccia di lei si increspa, proprio dopo aver trovato finalmente un bar dove scrutarsi calvinianamente, capisco tre cose, tre epifanie in un momento solo.

La vita è un insieme di fatti casuali, è il caso a dominare le nostre esistenze.

Non potrò trovare nulla se non so cosa sto cercando.

Anche lei aveva un piano B.

Mirella scompare dicendo che suo zio ha avuto un incidente.