Vinicio. E altri animali

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Io, la gente, mi sa che non sono capace. Prendo l’auto, vado alla Pineta di San Giovanni. Il Ravenna Festival ci ha messo un teatro all’aperto, in mezzo agli alberi. E ha invitato Vinicio Capossela con un nugolo di bei musicisti a far debuttare Il Carnevale degli animali e altre bestie d’amore. C’è anche, come “specie ospite”, Ermanna Montanari del Teatro delle Albe. Legge pezzi di letteratura varia che il Nostro ha cucito attorno alle quattordici piccole composizioni del Carnevale degli animali di Camille Saint-Saëns (da cui il titolo) e a suoi brani, editi e non.

Stavo dicendo. Prendo l’auto, vado a Ravenna, parcheggio vicino alla Pineta, una navetta mi porta per qualche centinaio di metri, scendo, cammino un po’ in mezzo agli alberi, giungo al teatro. Tre saluti, attorno a me tremila saluti. Alla faccia di Wagner. Mi siedo. Comincia lo spettacolo. «Bestiari. Fantastici. À la Borges» mi annoto mentre la torma di musicisti sale sul palco. Sulla testa variopinte maschere di animali (bellissime, le ha create Margherita Pillot). Fa un po’ “humor da musicista”, ma pazienza, a Capossela si perdona tutto. Accanto a lui (con tuba, giacca e barbetta d’ordinanza) stanno il Trio Amadei e i Solisti della Vianiner Philarmoniker. E Vincenzo Vasi al theremin, Asso Stefana alle chitarre, Zeno de Rossi ai tamburi e Peppe Frana all’oud e strumenti medievali. Brevi musiche di Saint-Saëns si alternano a canzoni e letterature, sapiente mescolanza di colto e popolare, calmo e vivace, Ottocento e Novecento, commovente e allegro.

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Un biglietto intero nel primo settore costa trentacinque euro. Vien da pensare che uno che spende una cifretta del genere voglia ricevere tutto quello che ha pagato. Invece. Il pubblico se la spassa con gioviale evidenza quando Capossela introduce e intermezza, divertente e forse divertito. Al termine dei suoi brani più noti e briosi: applausi e grida da stadio, noblesse oblige. Alla mia sinistra una montagna di centoventi-centotrenta chili con incontenibile entusiasmo mi pianta più volte il gomito nel costato, ripetendomi accaldato e infervorato la battuta appena giunta dal palco: ho trovato un buon samaritano che ritenendomi debole d’udito vuol farmi parte del tripudio. Ma quando si arriva ai brevi componimenti di Saint-Saëns e ai brani musicali più pacati il bestione tira fuori tre (dico: tre) cellulari con schermi larghi come riviste da spiaggia e luminosi come insegne di bar estivi e inizia ad armeggiare con internet, mail, sms e chat. Al successivo intermezzo comico, di nuovo: sonore risate, applausi e sgomitate complici. Come lui, altre sette o otto persone in giacca e cravatta (o gonna lunga e collana, a seconda dei sessi. O dei gusti).

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I casi sono due. O sono capitato in mezzo a una delegazione del G8, lì per rilassarsi dopo una lunga giornata di riunioni, meeting e briefing ma senza dimenticare i destini del Pianeta di cui occorre prendersi cura all’istante, oppure io non capisco.

È come andare in pizzeria, ordinare una (neppur economicissima) pizza con prosciutto e funghi e poi buttare il prosciutto sotto al tavolo quando il cameriere non sta guardando.

Io, l’umanità, mi sa che non sono capace. A parte la smisurata irritazione di questi schermi luminosi che mi si piantano nella retina quando avrei l’antiquata, spocchiosa pretesa di riuscire a vedere uno spettacolo che sono andato a vedere, mi vien da pensare che forse per queste persone valga l’equazione “Capossela = divertimento”, e tutto il resto non sia considerato che un intervallo. Come quando guardi un film in tv, arriva la pubblicità e vai in bagno. Senza neanche pensarci, senti lo stimolo e ti alzi dalla poltrona: Pavlov docet.

A me pare di una tristezza sconfinata, questo modo di consumare il fatto artistico: trattenere solamente ciò che si sa già invece di sporgersi verso l’ignoto (o almeno provare a farsi sorprendere). Per esser chiari: mi son visto Marajà attraverso lo spropositato schermo filmante del mio colossale ed estasiato vicino di sedia, mentre il trillo di Wazzup! si mescolava alle raffinate note dell’ottocentesco compositore francese. Una curiosa altalena.

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Io non sono un fan di Capossela. Non mi ha mai incantato quella compiaciuta aria (o aura) da bonario bohémien che troppo smaccatamente cozza con i vezzosi capricci da “genio e sregolatezza”, con le esorbitanti richieste di catering e hotel e tutto il resto. Arte e vita, ci hanno insegnato le Avanguardie un secolo fa, almeno un po’ dovrebbero provare a parlarsi.

Ma questo Carnevale è intrigante, va detto. Per almeno tre motivi. Primo: Ermanna Montanari costretta a letture forse non vicinissime a lei. Maestria che prende strade inaspettate, letteralmente sorprendenti. Secondo: Vincenzo Vasi e il mistero del suo theremin. Brividi in ogni dove. Terzo: il filo conduttore “bestiale”. Nel programma di sala Capossela cita Lascaux e l’incantamento che quel luogo provocò in Pablo Picasso. E spiega: «L’animale mette a nudo l’uomo e se lo può permettere perché è già nudo. L’animale appartiene al mondo dell’inconscio, del fantastico, dell’irrazionale, della bellezza, molto più che a quello della zoologia dove la scienza contemporanea lo ha neutralizzato».

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Tra i brani letterari a tema ferino utilizzati in questo Carnevale: L’usignolo e la rosa di Oscar Wilde, Bestiario d’amore di R. De Fournival, il biblico Libro di Giobbe, I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift. E Lascaux. La nascita dell’arte di Georges Bataille.

Lo scrittore, antropologo e filosofo francese, in un altro suo testo sullo stesso tema (Il passaggio dall’animale all’uomo e la nascita dell’arte, 1953), ragionando sulle opere di arte parietale presenti a Lascaux, «il primo segno sensibile che l’uomo abbia lasciato della sua irruzione nel mondo», evidenzia un curioso paradosso: esse «si limitano, o poco ci manca, a rappresentazioni di animali. Questi uomini ci hanno reso sensibile il fatto che erano divenuti uomini, che non erano più racchiusi nei limiti dell’animalità […] lasciandoci l’immagine stessa dell’animalità da cui sfuggivano». Paradossi che evocano (o sono evocati da) altri paradossi: Camille Saint-Saëns mescolato a Wazzup!, i funghi senza il prosciutto.

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Continua Bataille, perfetto per sintetizzare (e al contempo aprire come un prisma) questo variopinto Carnevale: «L’uomo […] dissimulò i tratti di quello che era veramente sotto quelli della bestia che non era. Confessò soltanto a metà la forma umana e si diede la testa di animale […] Il passo decisivo ebbe luogo quando l’uomo, che ormai si vedeva come tale, lungi dal provare vergogna, come noi, della parte animale che restava in lui, camuffò al contrario quest’umanità che lo distingueva dalle bestie».

Sostare su questo scivoloso crinale: è il maggior merito di Capossela e del suo stormo musicante. Una sera, in mezzo alla Pineta.

 

MICHELE PASCARELLA

 

Vinicio Capossela, “Il Carnevale degli animali e altre bestie d’amore” – mercoledì 18 giugno 2014 – Ravenna, Pineta di San Giovanni – info: ravennafestival.org