Questa lampada era una barbabietola

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Miss Sissi bion on lamp
Miss Sissi bion on lamp
Miss Sissi bio on lamp di Philip Stark

Odio le buste per la spesa, quelle tutte bio, quelle fatte – dicono – con l’amido di mais, tapioca o patate ma che al tatto sembra più placenta d’elefante, dalla consistenza ancor più perforabile della difesa del Bologna FC. Sono talmente ecologiche che a me cominciano a biodegradarsi in anticipo, solitamente sulle scale di casa, facendomi rotolare sui gradini a volte la Moretti da un litro, a volte la salsa di pomodoro. Magari non inquinano l’ambiente ma ammorbano il mio umore e per ricaduta quello dei miei condomini. Costano 10 centesimi, non uccidono i delfini ma per essere prodotte hanno bisogno di campi coltivati a granturco e poi non sono neanche decomponibili come ci immaginiamo.

La domanda è: può esistere una plastica degradabile ma che abbia almeno le capacità e la versatilità dell’affidabile ma ingombrante sottoprodotto della lavorazione del petrolio? Può esistere una plastica sana davvero, che non sia solo un palliativo ipocrita per farci sentire più corretti? La risposta è sì, esiste, ed il suo brevetto è Made in Italy, come il Moplen dei tempi d’oro. Ah già, perché cosa d’obbligo in ogni articolo che parli di questa materia è ricordare ad un certo punto al lettore come la plastica sia un prodotto del genio italico, in quanto l’ultimo, e unico, premio Nobel per la Chimica nel nostro Paese l’ha vinto nel 1963 l’ingegner Giulio Natta per le sue ricerche sui catalizzatori di polimeri.

Cinquant’anni e passa dopo forse la storia della chimica ripassa da queste parti del mondo perché una delle esperienze di ricerca più concrete e rivoluzionarie è quella in corso nella pianura bolognese, a Minerbio, dove nella sede della Bio-on da qualche anno si cerca con dei sottoprodotti dell’agricoltura di creare paraurti, lampade, scocche di televisori e perfino resine da utilizzare in medicina per ricostruire ossa umane.

Gli ideatori e cofondatori di questa azienda che si occupa delle nuove bio-plastiche non sono né chimici né ecologisti agguerriti ma sono l’ex grafico pubblicitario Marco Astorri e il franco-romagnolo Guy Cicognani. La nascita di questa start-up ha a che fare col mondo dello sci; anni fa i due avevano una partecipazione in una ditta che produceva e forniva skipass, e forse sentendosi in colpa per la quantità numerosa di skipass in plastica tradizionale che restavano sui prati a primavera, dimostrando così di essere più perenni delle nevi, è scattato in loro il desiderio di porre rimedio a questo inquinamento e produrre skipass, e non solo, non inquinanti. Si sono buttati in una lunga ricerca on-line su quel macro mondo delle plastiche biodegradabili scoprendo che l’idea buona era già stata pensata anni fa ma mai applicata: mancava chi avesse voglia di investire soldi e tempo collegando esperienze sparse sul pianeta.

Astori e Cicognani, capito che stavano aprendo una nuova strada nel mondo della chimica, hanno messo da parte gli skipass e investito un bel po’ di tempo e denaro, comprando brevetti vari nel mondo – anche da una università dell’oceano Pacifico – e cominciando a radunare esperti per realizzare il polimero PHAs, molecola scoperta e caratterizzata già nel 1926 dal biologo francese Maurice Lemoigne ma sulla quale nessuno aveva investito visto che all’epoca nulla era più economico del petrolio. Il PHAs in realtà esiste da sempre, è un policarbonato prodotto in natura da microrganismi, da batteri capaci di resistere in situazioni estreme, in risposta a condizioni di stress fisiologico. In pratica questi microrganismi vengono prima affamati e poi ingrassati in mix di zuccheri e di ossigeno, ottima sarebbe la canna da zucchero ma nella bassa bolognese i nostri eroi utilizzano il melasso, uno scarto della lavorazione delle barbabietole da zucchero. Attenzione, uno scarto, a differenza dell’amido di mais delle buste che viene coltivato apposta. Qui le barbabietole vengono utilizzate doppiamente, per lo zucchero e per la plastica, e per rifornirsi di materiale a km 0 la Bio-On ha siglato un accordo con la cooperativa agricola emiliana CoProB che produce il 50% dello zucchero italiano e di cui il melasso è lo scarto da smaltire.

La polvere bianca che i microrganismi producono ingrassandosi di melasso diventerà, una volta estrapolata con altri trattamenti top secret, una plastica dalle elevate prestazioni, che resiste per esigenze produttive a sbalzi dai -10°C a +180°C, ma soprattutto è totalmente biodegradabile in acqua o nel suolo. Sì, letteralmente biodegradabile, Fidatevi, altri media più importanti di noi si sono interessati a questa innovazione, da Wired ad Al Jazeera fino a Superquark, dimostrando la decomposizione di prototipi in plastica MINERV-PHA™. Il marchio registrato ricorda la località, Minerbio, e forse anche la dea Minerva, divinità della guerra ma anche protettrice degli artigiani. E qui si vede il tocco dell’ex pubblicitario, ora imprenditore Marco Astorri che – dopo averlo più volte contattato – ci racconta con entusiasmo invidiabile la sua creatura e ci tiene a far sapere che se non ci ha riposto prima non è per maleducazione ma solo per il ritmo serrato degli impegni.

Dopo pochi anni dalla fondazione come operate sul mercato?

«La Bio-On vende la licenza del prodotto, progettiamo nuovi impianti, sviluppiamo la tecnologia. Le aziende possono acquistare la licenza e produrre in cambio di una royalty. Così noi possiamo sviluppare la tecnologia senza dover produrre direttamente. Stiamo collaborando con aziende in Francia, Germania, Usa e Brasile. Abbiamo diversi laboratori, siamo attualmente in 38 unità ma contiamo di espanderci a 60».

Quindi siete una azienda che assume?

«Sì, cerchiamo giovani che abbiano esperienza come biologi o periti chimici. Vogliamo mantenere la struttura asciutta anche se presto ci quoteremo in borsa. Non chiediamo finanziamenti pubblici».

Ma come si fa a concorrere contro i prezzi delle plastiche cinesi?

«Noi non siamo in concorrenza con loro, proponiamo un’altra cosa sul mercato. Abbiamo la tecnologia per fare una plastica biodegradabile senza usare il petrolio, la migliore bio plastica possibile. Attualmente chi fa bio plastiche si limita al piatto usa e getta nell’umido, alla busta per la spesa che finisce nel compost. Noi invece riusciamo a fare pezzi per carrozzerie interne ed esterne per auto o oggetti da arredo, abbiamo messo in produzione la famosa lampada Miss Sissi di Philippe Starck, fatta senza un grammo di derivati sintetici del petrolio, e stiamo lavorando per creare una bioplastica che faccia anche da conduttore. Di solito la plastica viene usata negli impianti elettrici come isolante, no? Sai come fanno a recuperare il rame dai cavi elettrici dismessi? Li caricano a tonnellate su container, vengono spediti nei posti più poveri e degradati del Terzo Mondo e lì vengono bruciati, bruciando plastica, liberando diossina, creando nuovi tumori. Noi stiamo realizzando plastiche pulite che con il grafene facciano anche da conduttore, riducendo inquinamento e volume negli elettrodomestici. Su 300 milioni di tonnellate di plastica nel mondo 30/40 milioni vengono usati per componenti elettronici, una bella fetta del mercato. Al momento attuale la nostra plastica ovviamente è più cara, ma le multinazionali che ci cercano sanno che assieme ad essa c’è un altro valore. Siamo solo all’inizio di un processo a lungo termine, ci vorranno anni ma la tecnologia per abbandonare la dipendenza dal petrolio esiste e noi l’abbiamo. Il mercato delle plastiche è qualcosa di micidiale e il mercato aumenta del 3-5% l’anno. Il petrolio però è in esaurimento: o si torna al legno, o si trovano dei nuovi prodotti con le stesse caratteristiche, ma naturali».

Attualmente questa piccola realtà imprenditoriale rivoluzionaria è una goccia nell’oceano ma le cose cambiano in fretta. La loro plastica nell’oceano appunto si scioglierebbe dopo 40 giorni. Non come succede fra il 135º meridiano ovest e fra il 35º parallelo Nord, dove trova L’Isola di plastica dell’Oceano Pacifico, un enorme accumulo di spazzatura galleggiante, un’area più grande della Penisola Iberica, circa 3 milioni di tonnellate di derivati del petrolio che si sono accumulati a partire dagli anni ’50 e mai ritornate a fare parte della natura.