Umbria Rock: un festival italiano all’inglese

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Umbria Rock

Umbria Rock

Leggendo la notizia della nascita di un nuovo grande festival rock in Italia, mi sono domandato quale organizzatore fosse così folle da avventurarsi in tale impresa. Pochi click mi hanno rivelato che all’origine della pazzia non ci sono italiani con la propensione al suicidio economico bensì Yashwant Bajaj, magnate indiano cresciuto evidentemente ad alta finanza e britpop. Yash, così lo chiamano amici e collaboratori, avrebbe sborsato di tasca sua un milione di euro per assicurare alla prima edizione dell’Umbria Rock Festival un cartellone molto ambizioso.

Incuriosito da un concept che nelle intenzioni ricalca i grandi festival britannici (a partire dal camping gratuito) parto la mattina di sabato 2 agosto verso le campagne perugine per capire come prende forma una rassegna pensata in inglese e realizzata in Italia.

Arrivo nel piccolo comune di Massa Martana quando il festival ha già vissuto la sua prima giornata, passata alla gloria del web più per la defezione dei Basement Jaxx, headliner della serata, che per l’operazione nostalgia di Peter Hook & the Light. A metà pomeriggio uno scarno comunicato getta benzina sul fuoco dei malumori di chi ha comprato l’abbonamento per le tre serate: anche i Courteeners vengono cancellati dal festival. Un paio di indizi rischiano di fare una prova, è ora di verificare come stanno le cose e recarsi al festival. Dopo aver raccolto qualche lamentela alle casse per la doppia cancellazione entro nell’area adibita a rock arena e il colpo d’occhio è fulminante: un quadro del rinascimento a tinta ‘verde accecante’, colline imponenti, spazi senza confini e per ora poca gente. Sul palco, col sole quasi a picco, stanno suonando i Re-TROS, trio cinese di post-punk sperimentale alla Pere Ubu, anche se è arduo trovare una definizione alla loro musica: un set aspro e intenso, martellante ma di ottimo livello anche se in pochi li ascoltano, sarà poetico poi rincontrare il gruppo domenica mattina per le vie di Perugia nelle perfette vesti di turisti orientali.

Al festival c’è un solo palco quindi tra un set e l’altro passano circa tre quarti d’ora che la gente trascorre nella zona ristoro dove comincio a capire che il 90% del poco pubblico è inglese, di mezza età e con famiglia a seguito. Questo dà un tocco di esotismo all’atmosfera ma mi chiedo dove siano gli italiani e un pensiero mi fulmina: sono tutti in spiaggia a ballare David Guetta mentre qua tra un paio d’ore suona Paul Weller.

I sudditi di Elisabetta invece qui si spellano le mani per i prezzi della birra più che dimezzati rispetto ai loro festival. Incontro un ragazzo sulla quarantina che sfodera un romanesco forbitissimo, stento a crederlo ma è inglese anche lui pur se con evidenti trascorsi nella città eterna. Mi regala una frase che diventerà lo slogan del week-end: “Stò ‘na crema!”. E da questo momento anche io, meraviglioso.

Il sole tramonta lentamente e sul palco salgono i Charlatans, protagonisti dell’epopea madchester di inizio anni ’90 ed ormai in declino da parecchi anni. Appaiono subito su di giri e molto più in palla rispetto a quando li vidi al Velvet di Rimini nel 2010, Tim Burgess, ossigenatissimo, sembra in pace col mondo e dispensa sorrisi al pubblico che piano piano aumenta ma è ancora molto al di sotto delle aspettative. I suoni che arrivano dal palco comunque sono ottimi, paradossalmente il brano che esce peggio è proprio The Only One I Know, la loro hit planetaria, forse perché non ne possono più di cantarla. Chiudono con Sproston Green, anch’essa da Some Friendly, loro debutto e allo stesso tempo apice creativo. Un’ora di set più che dignitosa in attesa del modfather la cui esibizione è fissata alle 22.30. Finalmente c’è un movimento sotto il palco degno di un festival, ma secondo me siamo comunque sotto le 2000 presenze. Su Paul Weller c’è poco da dire, ci mette un attimo a dare corpo al suo mito elargendo lezioni di eleganza e professionalità. È ormai più un father-of-soul che il modfather di fine anni ‘70. La band, tra gli altri Steve Cradock degli Ocean Colour Scene, è costruita intorno a lui per esaltarne le doti melodiche.

La prima parte del live è tratta pesantemente da Wake Up The Nation e dalle produzioni più recenti, Weller si alterna tra chitarra e pianoforte e infila nel set Ever Changing Moods degli Style Council. Chiude dopo un’ora e mezza che sembra un batter d’occhio con Changingman. Poi per il bis risale sul palco Tim Burgess che affianca alla voce Paul per una clamorosa versione di Town Called Malice dei Jam. Difficile chiedere di più.

Scocca la mezzanotte e la musica lascia spazio alle proiezioni mute, che sanno davvero di riempitivo dato che il telo su cui prendono forma i film ha dimensioni casalinghe ed è relegato in un anfratto difficile da individuare.

La domenica per fortuna non subisce defezioni, al programma prescindibile del pomeriggio preferisco però l’esplorazione dei colli perugini. Arrivo quindi al festival a metà dell’esibizione dei Cribs che inizialmente mi sembrano un gruppo italiano con una pessima pronuncia e poca capacità di suonare, me li ascolto distrattamente dalla zona ristoro e mi chiedo che cosa ci troverà mai di bello l’NME in un gruppo così scontato. Oggi c’è meno gente del sabato, ovviamente, ma quasi quasi la dimensione intima migliora l’atmosfera: sembra di stare a una festa tra amici e ci si saluta calorosamente solo per aver ordinato una birra insieme la sera prima. Mi avvio poi sotto il palco dove stanno per esibirsi i James: ancora Manchester, ancora i ’90. Sono la band che mi ha portato fin qua, più che Paul Weller o i Kaiser Chiefs. Idoli in patria, quasi sconosciuti altrove, star mancate con l’attitudine dei loser nonostante i milioni di dischi venduti. Caratteristiche che si trasfigurano tutte nel leader Tim Booth, sciamanico, mistico ed estatico che sembra avere il potere mentale di trasmettere gioia e serenità al pubblico. Potrebbero sparare in faccia ai fan una scaletta di sole hit, ma sarebbe troppo scontato e poi c’è un album appena pubblicato da promuovere che quindi riempie il set eseguito magistralmente nonostante evidenti problemi alle spie di Tim. Violino e tromba sono lì a marcare la distanza tra i James e la miriade di formazioni senza arte che nacquero e subito morirono in Inghilterra negli anni ‘90. E poi decidono che è il momento di Getting Away With It cantata probabilmente anche da chi non l’ha mai sentita prima. Chi invece la conosce ha un morso in gola. È una messa laica e quando attaccano Laid improvvisamente piove! È la birra che schizza al cielo dai bicchieri della gente che non può fare a meno di saltare a più non posso. Sforano il tempo previsto e chiedono di poter suonare ancora alzando l’asticella a livelli da record senza nemmeno suonare Sit Down o She’s A Star.

Ora il problema è nelle mani dei Kaiser Chiefs, dopo un’esibizione del genere rischiano seriamente la figuraccia. Ma Ricky Wilson, leader del gruppo di Leeds, decide di salvare il festival da solo. L’esibizione è tutta sangue e sudore, corse e salti, si ferma solo pochi istanti, giusto il tempo per presentare il nuovo batterista che proprio questa sera compie gli anni! E via di auguri cantati in inglese sul palco e in italiano sotto, torta in faccia al festeggiato e si riparte, con le hit che hanno consacrato il gruppo e Wilson deciso a rischiare le prime pagine quando si lancia di corsa attraverso il pubblico con l’obiettivo, riuscito, di scalare senza protezione l’altissima torre-regia in mezzo al prato. Il rock è questo: non saranno né i Beatles né gli Xtc, ma quanto ci hanno fatto divertire!

A mezzanotte finisce la prima edizione di Umbria Rock, nei saluti finali c’è molto chiacchiericcio sulle poche presenze e sulle pecche organizzative in parte perdonabili per una prima volta. L’intenzione dell’organizzazione rimane quella di operare almeno per un triennio. Noi ci auguriamo di essere qua anche per il decennale ed il ventennale. Piano piano la gente capirà.