Rocky Horror: un mito e un rito, sempre in pista

0
904

rocki horror picture show

Farsi un passeggiata sul lato selvaggio della strada.

Come peraltro suggeriva zio Lou, nel bel mezzo del cammin di Transformer. Che cambiare è l’unico modo di sopravvivere. Anche se nessuno sa bene cosa succeda dopo l’oscurità, quando persino i serpenti a sonagli perdono la prima pelle, e pure il cuore.

Ignari degli ammonimenti di zio Lou, e del petto di Andy, non sapevano a cosa andavano incontro neanche i fidanzatini più famosi della storia dei musical, Janet e Brad, lasciati a piedi dalla loro macchina. Giunti per caso nel regno di Frank’n’Furter, spinti a fare conoscenza con le creature del lato selvaggio della strada, e con le loro stravaganti usanze.

Non sapevano nemmeno che la loro storia sarebbe stata ancora raccontata, cantata, performata decenni dopo. Dopo essere stata vista da qualcosa come venti milioni di persone. Ripresa e riproposta dai palazzetti dello sport alle feste di parrocchia, dagli schermi del cinema ai teatri di provincia. Con tanto di rito nel rito, regole segrete o quasi, dialoghi nei dialoghi, riti di iniziazione sullo schermo che si traducono – ogni sabato sera a mezzanotte – in riti veri e propri per migliaia di adolescenti americani e non.

Ora: l’incipit su zio Lou è venuto un po’ per caso, ma a ben pensarci Transformer è del ’72, e la prima del Rocky Horror Picture Show è del ’73.

Il ché, tradotto nella vulgata del rock, significa inequivocabilmente trionfo del Glam.

Ovvero l’eccesso estetico che diventa liberatorio. Il machismo del rock che diventa circo compiaciuto. Il B-movie, e la sua estetica, che contagiano i piani alti dello spettacolo.

Pensare come uno spettacolo – che glorifica ogni stravaganza e toglie di peso dall’area-tabù ogni tipo di diversità allora conosciuta – sia diventato uno dei musical di più straordinario successo (di Richard O’Brien), e di più solida longevità, oltre che un film (di Jim Sharman), significa parlare di un caso, che continua ad appassionare a ogni latitudine. Giochi di simboli, bisessualità e arte classica, filosofia e balletti. C’è di tutto, disegnato con la mano sicura di chi sa bene che sta disegnando il ritratto decadente (ma infine glorioso), di un’epoca decadente (ma infine gloriosa). La musica, cult nel cult, ha poi dato una grossa mano. Anche oggi il Rocky Horror continua ad avere una frenetica vita ufficiale e ufficiosa, qualificandosi come  una delle produzioni culturali più apprezzate del secolo scorso.

A Forlì arriva una produzione diretta da Sam Buntrock, fra i registi più apprezzati della scena londinese contemporanea. Rigorosamente in lingua originale, offre un allestimento di spettacolare eccentricità che ha fatto parlare di sé e attirato persino l’attenzione di Richard O’Brein in persona. Colonna sonora ovviamente e rigorosamente live, dall’immancabile “Lets’ do the time warp again” in giù.

Che in fondo tutti siamo sweet transvestites, from Transsexual Transylvania.

O qualcosa di simile.

A. G.

22-24 maggio, Forlì, Palacredito Romagna, info: ravennafestival.org