Giovanni Lindo Ferretti: di uomini e cavalli

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Giovanni LInfo Ferretti insieme al cavallo Verbena, foto di Andrea Grassi
Giovanni LInfo Ferretti insieme al cavallo Verbena, foto di Andrea Grassi
Giovanni Lindo Ferretti insieme al cavallo Verbena, foto di Andrea Grassi

Giovanni Lindo che sale sulla montagna, a ritrovare uno sguardo. E che ridiscende, con un’armata disarmata, di storie e cavalli, verso la pianura, e infine al mare. Sono parole d’Amore, le sue. Di un cavaliere conquistato dalla propria impresa. Epica d’uomo e d’animale, senza vincitori e vinti.

Con il corpo sempre al centro del sentire, e il cuore centro del corpo. Cuore muscolo, di uomo e cavallo. Polvere, fuoco all’imbrunire. Zoccoli sulla terra, danze e parole senza un tempo. Si arriverà a Ravenna. Ma è un percorso, intanto. E ogni percorso parte da un luogo.

«La mia montagna è un paradiso. Ma è un paradiso ben situato sulla terra. Un posto abbandonato e pieno di problemi. Persino le frane quassù hanno una vitalità prorompente. Tutto il lavoro fatto dall’uomo in montagna è un lavoro per rendere più agevole il transito. Nel transito qualcosa e qualcuno arriva, qualcosa o qualcuno se ne va. L’abbandono determina un vuoto, e il vuoto rimette di fronte a un aspetto molto naturale del vivere».

Salire in montagna, con i cavalli. Conviverci, imparare a conoscerli. E, nell’incontro, trovare una poetica che diventa teatro. Con lo sguardo del contemporaneo che si perde e si ritrova nel Rito.

«Il nostro non è un teatro moderno, non è un teatro di denuncia, non è un teatro civile. È teatro Epico. La ritualità è una dimensione essenziale. E la fisicità, il corpo con cui fare sempre i conti. Un’azione, una cadenza. Il fuoco, l’animale, la polvere. Ritrovare questa dimensione è un volo indietro e un balzo in avanti». 

Un balzo che ha elementi di avventura, e di rischio. «Scendere a Ravenna ci fa una gran paura. Ne parlo ogni giorno con il cavallo Cangrande, e glielo dico: Preparati, che si va a Ravenna. Ravenna è il contraltare di quello che siamo noi. Impero di Oriente, Bisanzio. Noi siamo Longobardi che scendono. E con noi i nostri cavalli, eredi di generazioni e generazioni di cavalli. Dobbiamo lavorare per salvarci. Quello che avremo fatto lo sapremo quando torniamo».

E l’impresa è da fare col cuore e con i sensi, più che col cervello. «Questa non è una sfida colta, no. La dimensione colta è fondamentale, ma solo per essere immagazzinata, non per farne sfoggio. È un approccio primitivo, il nostro, barbarico. È basato sulla corporalità. In un momento in cui il vivere quotidiano è molto defisicizzato».

Un Teatro degli Elementi e dell’Incontro, che rifiuta la mediazione tecnologica come cifra della propria epoca. «Al teatro contemporaneo sono estraneo. Quello che ho visto lo considero per lo più uno sfoggio di illuminotecnica. Uno spreco di luci. È un’antitesi della ritualità. Potevamo stupirvi con effetti speciali… Ecco, l’avete fatto. Soltanto che non si muove nulla, giacché gli occhi sono perennemente abbagliati. Però quando vedo cose del Teatro delle Albe rimango incantato. Perché è un teatro che ti affascina e ti stringe a sé. È fascinazione e fabulazione. Rispetto all’illuminotecnica del contemporaneo la nostra idea è più radicale e punkettona. Ci affidiamo all’illuminazione del Creatore. Sotto la luce variabile del tramonto, cominciamo che è quasi piena, finiamo al buio. È anche una riflessione su cosa sia il Teatro oggi».

Che pare voler tornare ad essere, prima di tutto, un racconto. Storia da raccontare, uomo che se ne fa portavoce. «Il nostro non è mai lo stesso spettacolo. Qui io sono un cantastorie con molte carte in mano. Ma ogni sera le carte presentano un aspetto diverso. Venti cavalli sono una compagnia straordinaria. Ma non è facile tenerli dentro uno spartito fisso. Quello che succede non lo posseggo nemmeno io. È uno spettacolo dove, fino al momento di andare in scena non funziona nulla, sembra tutto impossibile. Ma poi le cose si allineano».

Accompagnando il calare del sole, si raccontano due storie. Una, storia di un tramonto. L’altra di un incontro. «Il primo racconto che faccio è quello di un pezzo di mondo. Di un gruppo di montagne e delle sue popolazioni, dalla preistoria ad oggi. È una storia di transumanza, che arriva fino alla maremma, e poi al mare. E poi termina. Della civiltà delle montagne conosciamo tutto il decorso. Ed è irrimediabilmente finita. Poi c’è una storia che racconta un rapporto, quello fra uomo e cavallo. Un rapporto millenario, stipulato all’alba dei tempi. Un patto di mutuo soccorso, ancora valido. L’uomo, e il bisogno di un sano rapporto con un animale. Animale che in questo caso è anche simbolo di bellezza, e di forza. È un rapporto sereno che contempla la diversità».

Del Teatro Equestre non c’è però la leziosità e lo sfoggio. Solo il senso di un incontro. «I nostri cavalli non sono cavalli da parata. Sono i cavalli che hanno fatto la storia d’Italia. Maremmani. Grezzi, ignoranti, testardi, ribelli, con poca disciplina. Cavalli da guerra e da macello. Eppure stanno in scena. Con grande dignità. Persino i ragazzi delle medie inferiori, che sanno essere davvero dei mostri, rimangono ipnotizzati, risucchiati, rapiti».

Forse perché il movimento dei corpi negli elementi ricollega a una dimensione di bellezza senza tempo, impossibile da ritrovare nel quotidiano. «La nostra epoca ha ancora le sue ritualità. Certo, sono ritualità deteriorate. Ma ci sono. Non credo esista nessuno meno sportivo di me, sono stato allo stadio due volte in tutto, ma devo dire che in quei luoghi a volte va in scena una ritualità strepitosa, capace di emozionare. È una ritualità più agile, certo. Ma non manca di potenza, ha un suo apice. È forse il massimo che si può permettere il nostro tempo».

Ma è possibile una ritualità che non tenda alla Bellezza? «La Bellezza è una necessità, deriva dal mistero d’essere vivi. Ma Bellezza non è la leziosità, non può essere un’idea imposta. Bellezza è costruire una situazione, e uno sguardo».

Cinque giorni prima di questa conversazione, Ferretti è a Bologna, in un teatro pieno, a cantare – dopo tanto tempo – tutto il suo repertorio passato. C’è gente commossa, anche molti giovanissimi. Ragazzi che cantano pezzi scritti per rendere il senso un’epoca che, in fondo, si era già compiuta prima che loro nascessero. Che effetto fa? «L’effetto che fa sulle persone non lo so. Posso parlare dell’effetto che fa a me. Cantare Emilia Paranoica mi fa sorridere. È una leggerezza che non pensavo di possedere. Perché è successo? Ogni cosa in fondo si riduce a persone, e all’incontro fra persone. L’Europa è la civiltà delle persone. Tutto nasce dalla relazione. In questo caso con Luca ed Ezio (degli Üstmamò, ndr), senza i quali questa cosa non sarebbe stata possibile. Loro hanno cominciato a suonare dopo avere sentito i CCCP dal vivo a Villa Minozzo, e quindi c’era un cerchio da chiudere. Esiste una vita individuale e una vita collettiva, per fare le cose. E c’è il libero arbitrio. Cosicché ognuno può essere giudicato per quello che fa».

E poi il ritorno alla montagna, fra una frana e un viadotto, fra la via Emilia e il Rito. Aspettando Ravenna, e i cavalli che scendono verso il mare.

19-21 giugno, Russi (Ra), Ravenna Festival, L’opera equestre, SAGA IV. IL CANTO DEI CANTI, Corte transumante di Nasseta: libera compagnia di uomini, cavalli e montagne, Palazzo San Giacomo. Ore 20. Info: ravennafestival.org