Diario dal Primavera Sound Festival di Barcellona

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The Church
Giant Sand
Giant Sand

Alla partenza, line-up definitiva alla mano, la quindicesima edizione del Primavera Sound festival di Barcellona si presenta notevolmente sotto tono nonostante la ricorrenza tonda: mancano veri e propri headliners e sono programmati tanti set oriundi che sanno molto di riempitivo.

Gli oltre trecento live in tre giorni promettono comunque di soddisfare anche i più esigenti e il gioco delle rinunce raggiunge immediatamente livelli hard a causa della contemporaneità dei set.

Il mercoledì è ad ingresso gratuito, non a caso è l’unica sera in cui si scansano persone ubriache e maleducate. Ne taccio.

Giovedì 28

I Giant Sand mi accolgono al palco Ray-Ban al calar del sole, la venue centrale è funzionale per programmare gli spostamenti che questa sera saranno particolarmente serrati mietendo comunque vittime del calibro di Thurston Moore. Chi non voglio perdermi assolutamente sono invece i ritrovati Replacements. I ragazzi di Minneapolis suonano elettrici e veloci saltando a più non posso. Buttano in scaletta Chuck Berry, i Joy Division e My Boy Lollipop senza che l’accostamento stoni. Il poeta li descrisse devastati dalla droga e dall’alcol: o hanno smesso o gli fa bene. Lasciano il campo verso le 22 ad Antony & the Johnsons, l’inglese è introdotto da un’overture orchestrale di un quarto d’ora, il suo show è una messa che non è più nemmeno laica e che abbandono velocemente per raggiungere Jason Pierce che coi suoi Spiritualized all’Atp stage dà vita ad una psichedelia-gospel dilatata al limite del lecito. Regala Electricity al pubblico prima di immergersi in una scaletta dispettosa, poi però chiude con Walkin’ With Jesus dei suoi Spacemen 3 sforando di oltre 20 minuti sul programma (credo sia il record di ogni tempo qui al Primavera). Poco male perché la prossima tappa sono i Black Keys che ci mettono due minuti a confermarmi l’idea che ho da tempo su di loro: sono fuffa. Il piccolo Hm stage invece ospita Denis The Night & The Panic Party che fanno ciò che ai Black Keys non è riuscito: elettronica suonata senza fronzoli e con la pacca giusta, infatti radunano parecchia gente transumante che li scopre per l’occasione.

The Church
The Church

Venerdì 29

Il mio programma del venerdì è alquanto risicato, c’è però il live di Tony Allen che non voglio perdermi e che è stato programmato scelleratamente al Rockdelux, l’auditorium all’ingresso del Parc del Forum, cioè al chiuso. Tra il pubblico incrocio Howe Gelb, con cui scambio due parole sul suo recente concerto al Velvet di Rimini, e Vasco Brondi che diventerà una presenza ricorrente durante tutto il soggiorno a Barcellona. L’Afrobeat nigeriano di Allen è irresistibile, con un semplice gesto della sua bacchetta alza 3000 culi dalle poltrone. Si balla come alla festa di fine anno scolastico ed è davvero un peccato non essere all’aperto. Ewa, messa in chiusura di scaletta, è da lacrima.

Torno alla luce del sole per Patti Smith che celebra i quarant’anni di Patti Smith che rifà Patti Smith. A dire il vero la gente è entusiasta, durante e dopo lo show, ma a me sembra che la newyorkese si ripeta identica da tempo ormai incalcolabile.

Poco dopo Belle & Sebastian salgono sul palco Atp, non uno dei principali, davanti ad un incredibile overbooking, confermando ancora una volta che veri e propri headliner non ci sono e che i sold-out sono per lo più determinati dagli orari favorevoli. Gli scozzesi ci vanno a nozze e le due perle Funny Little Frog e The Boy With The Arab Strap spellano le mani dei fan. Prima che quella marea immane esondi mi dirigo con molta fatica al palco Ray-Ban dove stanno per esibirsi i Church. Gli australiani, orfani di Marty Willson-Piper ma ugualmente alonati di leggenda, hanno a disposizione un set brevissimo e lo affrontano allungando a dismisura i brani che infatti alla fine saranno solo sette. Quando Peter Koppes attacca Reptile corre un brivido agli spettatori sotto il palco: vuoi vedere che ci fanno una scaletta di classici? Così non è ma il pathos è costantemente in crescendo. Poi all’ultimo pezzo nell’area si spande il La minore acustico di Under the Milky Way e qualcuno vicino a me piange. Dovrei andarmene ora, con quelle note nelle orecchie, ma ci sono i Ride sul palco principale e pare essere il concerto da non perdere. Ci provo ma niente da fare, lo shoegaze e le sue reunion mi hanno rotto le palle da un pezzo.

Belle & Sebastian
Belle & Sebastian

Sabato 30

È la giornata più lunga, imperativo categorico risparmiare energie, soprattutto negli spostamenti da palco a palco! In questo è di aiuto il servizio navetta, novità assoluta qui al Primavera, che mi porta in pieno tramonto sotto il palco in cui Mac DeMarco diverte e vuole divertirsi. Il ragazzino (25 anni!) tiene il palco come un veterano, poi lo abbandona per tuffarsi nel pubblico e surfarlo per 10 minuti abbondanti perdendo scarpe e buona parte dell’abbigliamento. Che grande!

Ora tocca ai Foxygen, ma prima di loro incontro Luca de Gennaro, memoria storica di tutto ciò che è musica in Italia, che mi regala un’oculata analisi sul Festival:

“Sento parlare italiano ovunque: nei locali, qui al festival, in metropolitana. Da una parte è una cosa bella, dall’altra viene rabbia nel vedere che gli italiani vengono qua perché non abbiamo niente del genere da noi. D’altronde il Primavera Sound ha il miglior rapporto città/festival. A Barcellona si viene perché c’è molto da visitare, c’è arte, c’è il mare e poi si spende poco per arrivarci e per dormire. Da questo punto di vista Glastonbury e il Coachella sono inavvicinabili. E poi Il Primavera ha vinto perché se guardi la line-up di quest’anno ti accorgi che non ci sono veri headliner. È un segnale importante, vuol dire che il Festival ha superato in importanza chi ci suona, cioè è più importante venire qui e viversi l’atmosfera piuttosto che andare a vedere qualcuno in particolare. Questa cosa in Italia non si è mai capita, né da parte del pubblico né da chi organizza. Ci ha provato il Beach Bum di Jesolo, o Sonoria a Milano, ma si parla di vent’anni fa e per un motivo o per l’altro quelle esperienze sono finite. Qui anche se non vedi nessun concerto ti diverti lo stesso e comunque il programma è densissimo. Io sono qui con degli amici ma li incontro solo all’alba quando tutto è finito perché ognuno ha gusti diversi e tutti vengono soddisfatti, direi che questo è il vero segreto del Primavera”.

E mentre me lo dice inizia proprio sopra le nostre teste lo show dei Foxygen che, a partire dall’esagitato trio di coriste, vuole essere il trionfo del barocco. Sam France imita per tutto il set Mick Jagger e per confondere le idee accenna la cover di Let it Be. Giocano a rompere gli schemi e a non lasciare rifermenti, con fughe dal palco improbabili che alla lunga stancano un po’. È comunque un peccato che si sciolgano dopo questo tour anche perché ciò che resta è spesso peggiore. Come la coppia d’assi che sta per esibirsi sui due palchi principali e che hanno attirato la maggior parte delle persone qua. Fatico a scrivere cosa combinino sul palco: gli Interpol si adagiano sopra linee grossolane di basso cercando di sostenere la voce di Paul Banks che più stentata e stonata non si può, mentre gli Strokes…bhè, mai sentito niente di peggio in vita mia, ma come spesso accade sono in perfetta solitudine nei miei giudizi e la gente approva. Mi rifaccio un po’ le orecchie coi nostri The Shalalalas prima di salutare la notte con l’orgia elettronica di Underworld e Caribou: un po’ ripetitivi e fuori tempo i britannici, decisamente il fenomeno del momento il canadese che rende il Ray-ban stage un dancefloor orgiastico fino al mattino. È festa e lo si capisce dai travestimenti carnevaleschi che abbondano tra il pubblico: supereroi, vichinghi, animali di vario genere ed un settantenne inglese (s)vestito da coniglietta di Playboy.

Tony Allen
Tony Allen

Domenica 1

Il giorno di riposo è quello in cui ci si stende al parco della cittadella, polmone verde della città, e può anche capitare che Sean Lennon debba scavalcarti mentre sale sul palchetto davanti al giardino botanico. Ha un nuovo progetto che si chiama The Ghost Of A Saber Tooth Tiger intriso di psichedelia. Passano immediatamente alla storia del festival grazie all’avvenenza fuori da ogni regola della bassista Charlotte Kemp Muhl, digitate per credere.

Rientro verso casa con solo un piccolo rammarico: non aver incontrato l’icona incontrastata di questo appuntamento fisso: Jeff! È una specie di gigante coperto dai braccialetti d’ingresso dei festival di mezzo mondo. Di lui si dicono leggende incredibili. E nel tempo ho scoperto che si chiama Jeffrey Johns e vive a Bristol dove, negli ultimi tredici anni ha visto almeno un concerto a sera, sette su sette! Su di lui, e se lo merita, è stato girato un documentario, e mentre penso a queste cose mi si para davanti in metropolitana, col suo fare ciondolante e i sacchetti di dischi acquistati in mano. Gli sorrido e sono felice, adesso è vera Primavera!

GIANMARCO PARI