Rolling Stones, il ritorno di Sticky Fingers

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Per il chi-come-dove-quando-perché, fondamento di qualsiasi corso di giornalismo, vi rimandiamo a Wikipedia o Allmusic o alle recensioni che si trovano un po’ ovunque le quali appunto copiano a piene mani Wikipedia, Allmusic o entrambi – questo scritto sulla nuovissima ristampa di Sticky Fingers (1971), più che altro, vuole essere una combinazione di impressioni in serie.

Dopo aver inciso il loro disco più memorabile, Let It Bleed (1969), per Sticky Fingers sfoderano l’artiglieria pesante – prima di tutto parte di esso lo giocano ai leggendari studi di Muscle Shoals in Alabama (se quelle mura potessero parlare e raccontare delle incisioni di Aretha Franklin, di Willie Nelson, di Paul Simon e di Bob Dylan, solo per citare alcuni delle decine artisti passati di lì) e poi chiamano a sé abitué del mondo Stones-iano – Ry Cooder, Nicky Hopkins, Jim Dickinson, Jack Nitzsche, Billy Preston – insomma, la crema o, se si preferisce, il cioccolato. E non ultimo, commissionano ad Andy Warhol un’epocale copertina fra le più ammirate della storia della musica rock – e no, il modello con infilati jeans con vera zip apribile non è Mick Jagger bensì tale Glenn O’Brien, assistente dello stesso genio della pop art, anche se per tanti anni si è speculato che fosse la superstar Warhol-iana Joe Dalessandro. Ciò che ne esce, oltre a essere il primo lavoro per la neonata Rolling Stones Records (un catalogo che negli anni 70 si arricchì di nomi quali Chris Jagger-fratello-di, Peter Tosh e i cubani Kracker), è un disco destinato a durare per sempre – roba che parte con Brown Sugar, il secondo più bel opener di un album dopo che le Pietre stesse per Let It Bleed già regalarono il primo assoluto, Gimme Shelter, e arriva in fondo all’ascolto ululando al buio Moonlight Mile, mentre nel mezzo fanno figurone diversi gioielli senza prezzo della nobile casata di Dartford come Wild Horses (uno dei più bei testi del gruppo e, per estensione, dell’intera storia rock) e Dead Flowers, entrambi chiaramente sotto l’influenza country/Cosmic American Music di Gram Parsons, amatissimo da Keith Richards ma visto con occhio di estrema gelosia da Mick Jagger – oppure veri atti di forza come Bitch e Can’t You Hear Me Knocking, quanto azioni di vero cinismo Jagger-iano qual è certamente Sister Morphine, che il gruppo si tira dietro da quasi tre anni (ah, gli scarti di Let It Bleed!) e che perfidamente Mick tira fuori sulle ceneri di Marianne Faithfull, da una parte “cornuta” e dall’altra “mazziata” da crediti negati che le verranno accordati solo diversi anni dopo previo azioni legali. Il quadro, per sommi capi e impressioni varie, è questo.

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La Deluxe Edition è un Vaso di Pandora che porta in dote uno sguardo molto approfondito dell’intera opera. Per iniziare, vi sono diverse cosiddette outtake di studio – dove subito bisogna segnalare un’acustica e rauchissima Wild Horses, e dove, al contrario, bisogna smontare i peana letti nelle cartelle stampa della Brown Sugar con ospite Eric Clapton: trattasi di una jam di studio dove il Manolenta si inserisce con la slide in una versione abbastanza paludosa del classico – detto chiaramente, interessante udirla in un box set che sublima un disco capolavoro ma nulla per cui strapparsi le vesti, almeno a impressione del vostro cronista. Per fortuna, comunque, nell’intera parte di outtake non è stato commesso l’imperdonabile errore fatto per gli inediti dell’edizione ampliata di qualche anno or sono cucita per Exile On Main St. (1972), vale a dire averli infarciti di sovra-incisioni fatte ex novo che davvero turbano il mood in modo fastidiosissimo.

Se il dolce si lascia sempre alla fine, Sticky Fingers/Deluxe Edition vale l’acquisto per le registrazioni live che getta sul tavolo come fiches sicure vincenti – ossia due concerti datati 1971, uno alla Roundhouse di Londra (di questo solo una parte, invero) e uno all’Università di Leeds, lo stesso luogo dove i Who scolpirono nel marmo il loro famoso album live del 1970. La performance dei Rolling Stones è assolutamente atomica, per diversi motivi – da una parte la band è nel pieno del proprio vigore con Mick Taylor a dettare legge accanto a Keef mentre dall’altra, per la prima volta dal vivo, vi è l’aggiunta di un’intera sezione fiati guidata da Bobby Keys, anzi, come lo presenta Mick Jagger, di Bobby “passami una tequila” Keys. A svettare, però, è l’apporto di Nicky Hopkins, uno dei grandissimi sidemen della storia del rock, come possono testimoniare le sue avventure accanto a Jeff Beck, i Quicksilver Messenger Service (che Edward, The Mad Shirt Grinder sia il vero culmine dei QMS?), Jerry Garcia, i Beatles, i Jefferson Airplane, i Kinks, Lee Hazlewood, i Who, Van Morrison e la Steve Miller Band – il pianista lascia segno distintivo in praticamente tutti numeri, con particolare menzione per Live With Me, per i due pezzi di Chuck Berry (Little Queenie e Let It Rock), per un anche straboccante di fiati Street Fighting Man e soprattutto per quello che pare essere chiaro sfidante a versione definitiva di Midnight Rambler – entrambe le esecuzioni di Londra e Leeds superano abbondantemente i dieci minuti e sono l’essenza di ciò che fa Rolling Stones.

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Come oggetto in sé, per chiudere, Sticky Fingers/Deluxe Edition lo collochiamo quale seconda più bella ristampa dei dischi degli Stones – lì la palma d’oro va a Some Girls (1978), arricchito di un intero disco di studio inedito e di un live in Texas dai conati punk che del gruppo è un altro assoluto vertice on stage. In ogni caso, con le “dita appiccicose” vi è sempre di ché godere, garantito!

CICO CASARTELLI