Il taccuino del critico: Giovanni Lindo Ferretti e i cavalli

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È arrivata l’estate.

Desidero sperimentare, per una parte dei lavori che vedrò nei prossimi mesi, una modalità di restituzione che funziona così: durante gli spettacoli prendo alcuni appunti sul mio taccuino. Inevitabilmente (anzi: intenzionalmente) frammentari.

A seguire li ricopio qui.

Nessun approfondimento.

Alcuni lampi.

So già che qualche artista vanitoso si offenderà «perché la sua ricerca richiederebbe ben altra attenzione» rispetto a queste poche righe.

Pazienza.

Mi consolo in anticipo con Ennio Flaiano: «Il segreto è raggiungere da professionisti la disinvoltura dei dilettanti, non prevalere, far credere che la cosa sia estremamente facile, un divertimento che trova la sua ragione di esistere nel fatto di essere più leggero dell’aria».

Buona lettura.

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Saga IV – Il canto dei canti

Palazzo San Giacomo al tramonto. Lo spazio di fronte è diventato un ranch, noi seduti attorno. Piadine, birre e patatine fritte, mentre si aspetta. Nugoli di bambini della Ravenna-bene in attesa dei cavalli. Transenne di metallo grigio, sole calante. Scritta nera su fondo bianco: Corte Transumante Nasseta. La mia vicina, con il programma di sala in mano: «C’è Lindo Ferretti che è una garanzia, posso anche non leggerlo». E lo appoggia. Persone sedute sulle gradinate con vassoi sulle ginocchia ricoperti di cappelletti al ragù. Wagner non sarebbe stato contento. Ma siamo a Russi, non a Bayreuth. Due maniscalchi iniziano a battere ferri di fianco a un fuoco. Mi sa che tra poco si comincia.

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Alle ore 20 in punto si parte. Puntuali che neanche alla Scala. Un biblico Giovanni Lindo Ferretti, intabarrato come un personaggio di un fantasy, dice un testo/elenco à la Ecclesiaste. «Non vorrei essere che qui, in questa incerta ora». Con quel mantello nero sembra Werner Schwab. Due puledri marroni e lucidi corrono e si rincorrono attorno a GLF che dice. Si annusano. Vita presentata, non rappresentata. Come già Jannis Kounellis in una galleria d’arte, nel 1969.

Jannis Kounellis, Senza titolo, 1969
Jannis Kounellis, Senza titolo, 1969

 

Poi, purtroppo, finisce il teatro e inizia lo spettacolo.

Entra un cavallo scuro con un cavaliere vestito di juta e maschera nera. Poi un terzetto, giri in cerchio e acrobazie alla moda del circo. La signora elegante seduta di fronte a me a ogni dimostrazione di téchne applaude. Entrano due con elmi cornuti, anche lo show vuole la sua parte: dare forme etichettabili nella categoria “spettacolo”. GLF salmodia in latino, con suonatore di ghironda a fianco, arriva un terzo cornuto, il sole cala. Cavallo impenna, in automatico la signora applaude. Pavlov docet.

Altri cavalieri girano in tondo: in scena non fabula, ma bios. Ma addomesticato. Entra centauro in tuba nera, pancetta e panciotto. Cavalli conciati, destrezze circensi. Lunghi brani su CD in cui GLF dice e canta. Entra amazzone con gonna di volti rossi di plastica, kitsch q. b. 

GLF canta di «Maremma rigogliosa di genti e città», attorno a lui un cavaliere in abiti da buttero. La normalizzazione è il destino di tutti gli artisti? O è il prezzo della / per la fama? «Da che mondo è modo, per quel che si sa, per quel che si ricorda»: appunto.

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Più volte rientrano centauri già visti, ma in costumi di scena diversi. Un po’ come quei circhi in cui chi ti vende il pop corn poi te lo ritrovi appeso a un trapezio a testa in giù.

Il sole cala, la temperatura anche. Formazione a quattro cavalli affiancati, di cui due in retromarcia. Signora applaude. Acrobazie di giovane muscoloso in camicia rossa, su e giù da cavallo in corsa. Signora applaude. Musica di organetto e «Amarti m’affatica». La luce cala. GLF parla di questa loro esperienza come «punto di sutura tra gli inferi e gli stratificati cieli». Il pubblico applaude. La luce cala, il freddo aumenta. «Tutti mi dicon “Maremma, Maremma”» e entrano tre butteri con sei cavalli scampanellanti.

«Abitare il mistero», dice GLF. Mistero?

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«Lasciami qui / lasciami stare / lasciami così / non dire / una parola che / non sia d’amore / per me / per la / mia vita che / è tutto quello che ho / e tutto quello che io ho / e non è ancora / finita».

GLF presenta a uno a uno prima i cavalli e poi le persone. «Il mulo in origine era la cavalcatura dei re».

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«A volte succede: l’inverno passa e arriva primavera».

«Siamo un teatro barbarico», dice.

E poi c’è la sua voce. Che non si può raccontare. Bisogna sentirla, quella voce.

 

MICHELE PASCARELLA

  

Visto a Russi (RA), Palazzo San Giacomo, 21 giugno 2015, ore 20 – info: ravennafestival.org