Il taccuino del critico: L’amor che move il sole e l’altre stelle

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È arrivata l’estate.

Desidero sperimentare, per una parte dei lavori che vedrò nei prossimi mesi, una modalità di restituzione che funziona così: durante gli spettacoli prendo alcuni appunti sul mio taccuino. Inevitabilmente (anzi: intenzionalmente) frammentari.

A seguire li ricopio qui.

Nessun approfondimento.

Alcuni lampi.

So già che qualche artista vanitoso si offenderà «perché la sua ricerca richiederebbe ben altra attenzione» rispetto a queste poche righe.

Pazienza.

Mi consolo in anticipo con Ennio Flaiano: «Il segreto è raggiungere da professionisti la disinvoltura dei dilettanti, non prevalere, far credere che la cosa sia estremamente facile, un divertimento che trova la sua ragione di esistere nel fatto di essere più leggero dell’aria».

Buona lettura. 

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L’amor che move il sole e l’altre stelle

Gabriele Lavia in proscenio.

Prima dell’opera legge il XXXIII canto del Paradiso di Dante.

Subito prima di iniziare appare quasi giulivo.

Poi fa il suo lavoro di Attore: abbassa il tono, allunga la penultima vocale delle parole, con gesti della mano destra sottolinea alcuni passaggi.

Quanta retorica.

Quanta enfasi.

Quanto peso.

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Iniziamo.

Si apre il sipario.

Figure immobili, altissime, immense gonne di stoffa bianca.

Come un lampo, penso a un verso di Amelia Rosselli: Se l’anima scende dal suo gradino, la terra muore.

Movimento dato da video proiezioni in abbondanza.

Stelle.

Spazio.

Lucciole.

Ancora AR: Nel tuo occhio sornione io scorgevo l’irrepetibile abitudine al vuoto.

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Rotazioni.

Partiture autografe.

Angeli.

Nella sua luce il re dormiva.

Bolle di luce.

Acqua.

Batik.

Pianeti.

Sfere. 

Ed io non so cosa cerco. Una battaglia di navi. Un pesce con la bocca aperta. Un fardello troppo pesante. Una luna rossa che spiuma.

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Un vortice di colori su tutto.

Un caleidoscopio significante, più che significativo.

Colori che passano e vanno: carpe diem!

Un eccesso di segni che allontana le figure a distanza siderale.

Immagine | diaframma.

Prendi la penna e impara a guardare.

Prendi la penna e impara a guardare.

Prendi la penna e impara a guardare.

Scena illusionistica rinascimentale: un teatro delle Meraviglie.

Gli “ingegni” di Filippo Brunelleschi, ma smaterializzati, qui.

Musica e canto: un continuum con variazioni.

No melodia, no motivi riconoscibili che tornano.

E io biascicavo tempeste e preghiere.

Dissonanze, suoni puntuti.

Sidney Finkelstein: la musica non esprime solo emozioni, ma anche idee, pensieri. E riflette la società che l’ha prodotta.

Musica post-Anton Webern: più pensiero che abbandono lirico.

Natura vs Cultura.

Qui tutto è Cultura, ma per trattar di Natura (Amore).

Non so se tu lo sai ch’io rimo interamente per te.

Amelia Rosselli
Amelia Rosselli

 

Questa frattura sarebbe piaciuta a Amelia Rosselli, sì.

E ai suoi luminosi compagni. A Darmstadt, d’estate.

Pianta la tua favola.

Pianta la tua favola.

Pianta la tua favola.

 

MICHELE PASCARELLA

  

Visto a Ravenna, Teatro Alighieri, 5 giugno 2015, ore 20.30 – info: ravennafestival.org