Film americani al cinema, il declino dell’autore

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SCHRADER
«Il nemico invisibile», locandina originale

Essendo il cinema un’arte collettiva, l’idea pur affascinante del regista come ordinatore unico delle proprie opere, alla base della politique des auteurs codificata negli anni ’50 dai «giovani turchi» dei Cahiers Du Cinèma (primo tra tutti François Truffaut), è sempre apparsa un po’ forzata, specie in quei paesi dove il grande schermo rappresenta una vera e propria industria.

Il Nemico Invisibile (fantasiosa traduzione dell’originale Dying Of The Light) dimostra con una certa attendibilità i limiti di un cineasta di nome, affidabilità e riconoscibile percorso artistico, nella fattispecie il Paul Schrader già sceneggiatore di capolavori quali Yakuza (1974) Taxi Driver (1976) o Mosquito Coast (1986), nonché regista di altrettanti film memorabili (per dirne qualcuno: Hardcore [1979], Mishima [1985], Affliction [1997] etc.) e redattore di un saggio imprescindibile (targato 1972) sullo «stile trascendentale» di Ozu, Dreyer e Bresson, di fronte alle manipolazioni dei finanziatori (qui, nel ruolo di produttore esecutivo, c’è il danese Nicolas Winding Refn, uno dei registi più sopravvalutati degli ultimi anni) e a tutti gli interventi di post-produzione resi possibili dalle tecnologie digitali.

È vero, la storia di Evan Lake (interpretato da un Nicolas Cage al solito improponibile, e perciò simpaticissimo, con toupet alla Gigi Marzullo), ex-agente della CIA affetto da demenza senile e tuttavia deciso a ritrovare a tutti i costi il suo antico aguzzino – un jihādista da molti creduto morto – in un periplo tra Romania e Kenya al di là della legge (e di qualsiasi credibilità), risulta talmente sconclusionata da far pensare che se anche Schrader avesse avuto il pieno controllo creativo sul proprio lavoro, difficilmente se ne sarebbe potuto trarre un film decoroso.

Eppure, se alcune ossessioni schraderiane, dalla solitudine inevitabile, dolorosa e antistatalista del singolo individuo (secondo una vena anarcoide e patriottica molto diffusa in certi settori dell’estrema destra americana) all’inevitabilità di una catarsi affogata nel sangue, fino a una visione del mondo come somma di esperienze traumatiche (nel radicale pessimismo del regista, il «morire della luce», al di là della citazione di un noto poema di Dylan Thomas, non è solo il deteriorarsi delle sinapsi del suo protagonista, bensì il collasso di intere civiltà ostaggio di opposti fanatismi), emergono comunque in modo nitido, i rimaneggiamenti imposti dalla casa di produzione – la californiana Lionsgate – affondano tutto in un insormontabile abisso di ridicolo involontario.

Malgrado la contrarietà del regista, Il Nemico Invisibile è stato infatti rimontato, dotato di una nuova colonna sonora e alterato, in senso edulcorante, nella fotografia (pare molto più sperimentale) di Gabriel Kosuth, al punto da somigliare a un dilettantesco direct-to-video cui nemmeno gli occhi di Irène Jacob (nei panni del vecchio amore di Lake), ancora acquosi, amareggiati e sbigottiti come nel kieslowskiano Film Rosso, possono donare un briciolo di sobrietà.

BAUMBACH
«Giovani si diventa», locandina originale

Discorso antitetico per il nuovo film – il suo ottavo – di Noah Baumbach, collaboratore di Wes Anderson al quale, con ogni evidenza, la patente di «autore» starebbe molto a cuore. Nondimeno, Giovani Si Diventa (titolo com’è ovvio molto più ammiccante e idiota dell’originario While We’re Young, «finché siamo giovani»), storia di un documentarista in crisi e della sua compagna (produttrice) raccontata quando i due iniziano a frequentare una coppia di ventenni solo esteriormente innamorati e disinteressati, sembra più che altro un catalogo di (acute) osservazioni sociologiche provvisto di notevole gusto ma carente di qualsiasi stile. Gli ultraquarantenni (Ben Stiller e Naomi Watts, entrambi ottimi) paiono una parodia degli intellettuali newyorchesi dei primi film di Woody Allen, i quali a loro volta erano già la parodia (ricordate la battuta sugli “annunci” di Io E Annie?: «Accademico trentenne desidera conoscere donne interessate a Mozart, James Joyce e sesso anale») di una certa èlite ultraborghese messa alla gogna da Tom Wolfe e nonostante tutto all’epoca ancora esistente (perlomeno nelle pagine del New Yorker), ma oggi, raggiunta la parodia al cubo, certe analogie lasciano il tempo che trovano. I giovani hipster, al contrario, radunano un elenco di contegni à la page troppo schematici per eccedere il confine di un teorema dimostrativo: ascoltano Kinks e Kris Kristofferson in vinile (mentre l’amico neo-papà di Stiller, ossia Adam Horovitz dei Beastie Boys, si affligge per aver perso l’involucro esterno di un CD dei Wilco, Yankee Hotel Foxtrot), possiedono una gallina in voliera come animale domestico, guardano L’Ululato in VHS, in macchina tengono un mangianastri, e così via. Il contrasto tra generazioni potrebbe essere interessante e ben scontornato; Baumbach, però, non ha il coraggio di andare fino in fondo, di tirare le fila della contrapposizione tra senior, polverosi, antiquati e anacronistici ma tutto sommato corretti e perfino un po’ idealisti, e junior arrivisti e calcolatori, dotati di talento, sì, e ciò nonostante troppo volubili e superficiali per rispettare il prossimo, e sceglie così di non giudicare nessuno in un finale (questo sì forzato e hipster) all’insegna dell’ecumenismo e del familismo per due ore intelligentemente aggirato. La sua parabola malinconica e dolceamara sul cinismo prêt-à-porter di certi giovani (dal punto di vista antropologico esatta a ogni latitudine, e tanto più qui da noi, dove certe mode attecchiscono solo per conformismo provinciale) finisce insomma per dissolversi in una commedia impalpabile in cui l’unico elemento di spicco, semmai, è l’assenza di tocco da parte di un regista in grado di passare dal melodramma (Il Matrimonio Di Mia Sorella [Margot At The Wedding], 2007) al flusso di coscienza improvvisato, come se John Cassavetes incontrasse la nouvelle vague (Frances Ha, 2012), senza mai esibire sufficiente personalità.

Ancorché segnati da esiti differenti, film come Il Nemico Invisibile e Giovani Si Diventa (tutti e due seviziati dalle nequizie di un doppiaggio italiano ormai attestato su minimi storici di pochezza) dicono chiaro e tondo di come nel panorama a stelle strisce, a dispetto di registi anche giovani – il citato Anderson, Debra Granik, Barry Jenkins, Andrew Haigh e via dicendo – di nuovo in grado di affermarsi per specifiche forme espressive, tematiche ricorrenti e composizione visiva, il cinema cosiddetto d’autore, se mai l’ha fatto, davvero non abita più qui.

Gianfranco Callieri

IL NEMICO INVISIBILE                        

Paul Schrader

USA – 2015 – 94’                                             

voto: *

 

GIOVANI SI DIVENTA

Noah Baumbach

USA – 2014 – 97′

voto: **1/2