Lee Hazlewood: flatulenza di letame, origami, latrati e me!

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Lee Hazlewood  nothing to say

Quando penso a Lee Hazlewood mi dico sempre una cosa: è lui la perfetta incarnazione dell’americano che mi piace, più di qualunque altro. Lo trovo un genio in tutto quello che ha fatto – come produttore e arrangiatore (Phil Spector vide bene di farsi un bel giro alla Viv Records, gli studi che Lee gestiva negli anni 50 in Arizona, per capire come accidenti si facesse a produrre dischi), come assoluto compositore di musiche e parole, come talent scout (Duane Eddy e Gram Parsons, mica paglia!) e interprete di canzoni altrui prima di tanti altri (Tom Rush, Joni Mitchell, Leonard Cohen, Harry Chapin, Tom Waits, Dolly Parton…), come tipo bastardo beffardo amabilissimo, come impagabile maestro di viaggio in senso pionieristico, dall’Oklahoma alla Svezia passando per il mondo intero, come vero cattivo con sempre la ragione dalla sua parte – altro che i finti buoni! Come le cose pregiate, quelle pregiate veramente, mi piace che Lee sia un amore per pochi ma pochi di quelli giusti – un amore esoterico, per chi capisce e per chi ha voglia veramente di immergersi in un artista – per chi gliene frega qualcosa di ciò che sta ascoltando! Anzi, lo chiedessero a me, Lee Hazlewood sarebbe certamente uno dei dieci artisti che consiglierei a chiunque di approfondire – musica, vita, viaggi, tutto! E quei tre concerti che ebbi la fortuna di vedere a cavallo del giro di boa del Nuovo Millennio, sono forse il mio più caro ricordo che io conservi in termini musicali – più di così, francamente, non mi è capitato di vedere.

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Chi è questo Wyndham Wallace e cosa ha fatto per scrivere Lee, Myself & I, ritratto in forma di libro del maestro? Il signor Wallace è un insider del music biz inglese, che a un certo punto verso la fine dei suoi vent’anni conobbe Lee, prima ne divenne pubblicista, poi manager e quindi amico-confidente fino a che il sommo tirò le cuoia un triste dì dei primi d’agosto del 2007 – io quel giorno ero a un concerto di Howe Gelb, che non risparmiò sentiti omaggi accennando Sand e These Boots Are Made For Walkin’. Il libro non vuole essere una biografia in senso stretto – per quella Google e Wikipedia fanno il proprio buon dovere – bensì sono quasi trecento pagine di aneddoti e flashback alla rinfusa ma con un gran filo conduttore – l’indiscussa unicità di una mente vulcanica, fuori schema (o è il resto del mondo a non avere schema?) e sempre stimolante come raramente può capitare d’incontrare. Sapere di come Elvis Presley ammirava Lee e in qualche modo gli fu anche debitore (pare che fu proprio Hazlewood, all’epoca seguitissimo DJ in quel dell’Arizona, a mandare in onda alla radio per primo un pezzo del Pelvis nei lontani anni Cinquanta – Memphis e dintorni esclusi, naturalmente) oppure di come Nick Cave se la fosse fatta praticamente addosso come il più impaurito dei mocciosi in presenza del Mostro Sacro oppure, ancora, della corrispondenza d’artistici sensi con Nancy Sinatra – Wyndham Wallace racconta tutto ciò e tanto altro con dovizia di particolari e di memoria, oltre alla giusta dose di trasporto emotivo vista la vicinanza umana e lavorativa con il grande artista.

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I momenti killer di Lee, Myself & I, un libro che davvero si legge tutto d’un fiato e tanto bello che io l’ho iniziato di nuovo per non perdermene nemmeno una sfumatura, tipo quando è narrata di quella volta che Lee mandò un fax che spiegava come egli voleva che venisse condotta un’intervista con il magazine musicale Mojo: «Qual è il punto con questi tizi? Non sanno che io non sopporto le interviste, anche se non quanto gli intervistatori? Questi hanno il coraggio di dirmi che mi danno solo una o due pagine se l’intervista la concedo al telefono? E per contro darebbero cinque o sei pagine se lasciassi quegli inglesi-dal-culo-freddo venire da me per tre o quattro giorni nella sempre soleggiata Florida e annoiare le mie gonfie occhiaie? Insomma, mi penalizzerebbero del 75% se non gli concedessi l’intervista di persona? Wyndham, digli pure che possono farsela addosso! Comunque, sì, possono venire a farsi tre giorni di vacanza in Florida – possiamo parlare delle mie canzoni, famose e non famose, ma non ho tempo di discutere di quei vecchi sfigati che produssi negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta». Oppure, parlando dell’autore direttamente all’autore: «Se avessi un nome come Wyndham Wallace non mi azzarderei ad avvicinarmi a un tizio che si chiama Lee Hazlewood. In ogni caso, visto che con me sei stato così tremendamente prostrato e leccapiedi, il mio vecchio cuore indiano, indiano americano non orientale!, come non potrebbe venire incontro alle tue richieste d’intervista? Comunque sia, sappi che la stampa inglese non è mai stata tenera né con Jerry Lee Lewis né con il Principe Filippo né con me. Così, sia tu sia quel Steve Shelley (batterista dei Sonic Youth e discografico di Lee Hazlewood negli anni Novanta/Duemila, NdR) sia il sottoscritto dobbiamo solo far finta che questo sia territorio vergine – ed essere preparati a che ci attacchino».

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Il meglio contro i media, infine, prima che chi interessato al libro stia iniziando a pensare che io voglia fare il nefasto spoiler di turno e inizi a mandare maledizioni come fulmini, è concentrato in queste sublimi righe: «Le cose che scrivono su di me sono oltre l’inverosimile. I critici in genere non sanno un cazzo, e non hanno vergogna di mostrarlo! Il loro problema è che pensano di sapere tutto. Quei piagnucolosi figli di puttana non sanno un dannato niente! Tipo che spendi mesi a fare un diavolo di disco o magari stai facendo un film da milioni di dollari, poi arrivano loro con le loro orribili quattro righe e finisce lì! Sei fottuto! E il bello è che quei tizi non distinguono il loro culo dal loro gomito, davvero! La metà dei tizi che scrivono non sanno ancora come togliersi il pannolino, per questo senti l’odore di cacca quando si avvicinano. Ricordati che la cacca puzza sempre! Wyndham, nella tua maledetta isola infestata di inglesi ce ne sono un paio di quei critici che se li incontrassi ancora adesso, gli spaccherei il naso su due piedi». E poi non mi si dica che Barton Lee Hazlewood non sapesse il fatto suo! Fatevi del bene, godetevi Lee, Myself & I.

CICO CASARTELLI

WYNDHAM WALLACE  – Lee, Myself & I (Jaw Bone Press)

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