Branford Marsalis, mo’ better blues!

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Cos’hanno in comune Spike Lee, i Grateful Dead, Sting, Willie Nelson, Eric Clapton e Norah Jones? Vi è chi vi ha fatto dischi interi, chi dei magnifici tour, chi lo ha voluto assolutamente come perno della propria band o chi lo ha impiegato come compositore delle colonne sonore dei propri film – naturalmente Branford Marsalis è molto più che solo questo, lui e il suo sax sono forse l’ultimo grande milestone del jazz più classico che comunque non disdegna le contaminazioni. Per intendersi, gente come Marc Ribot, Medeski Martin & Wood o John Zorn gioca un campionato diverso, forse più libero nelle aspettative che quello di Marsalis, che le proprie radici le ha nella culla del jazz classico, naturalmente Louisiana e New Orleans, nonché appartiene a una music family dove praticamente tutti hanno a che fare con il jazz – dal padre Ellis ai fratelli, fra cui il gigante Wynton, sono tutti impiegati a portare avanti la tradizione di famiglia.

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A memoria era da un bel po’ che Branford Marsalis non appariva sui palcoscenici milanesi – pertanto l’attesa procrastinata ha acceso un certa fame per la sua musica. Già a vedersi il quartetto guidato dall’artista con Joey Calderazzo (piano), Eric Revis (basso) e soprattutto il micidiale Justin Faulkner (batteria), cui per un paio di brani si è aggiunto lo splendido sax di Emanuele Cisi, formalmente è ineccepibile – tutti elegantissimi, nulla fuori posto, come d’obbligo a chi frequenta un certo giro musicale di alta classe. Ci si chiede se abbiano mai sudato, costoro – talmente è la coolness che trasmettono, quella di chi sa perfettamente come azionare e guidare il proprio mezzo. La musica vola davvero ad altezze vertiginose, dove il fascino sta nell’intreccio degli stili fra lo swing di New Orleans, il be-bop di Charlie Parker e quanto fatto più tardi da Miles Davis e soprattutto da John Coltrane, che di Branford Marsalis è il nume tutelare, l’archetipo su cui ha plasmato il suo divino sax – tanto che l’ultimo album uscito, Coltrane’s A Love Supreme Live In Amsterdam (2015), già nel titolo spiega contenuto e intento. Di Coltrane, però, direttamente non è stato citato nulla – qui lo spettacolo è tutto basato su Four MFs Playin’ Tunes (2012), dove quel MF sta a significare proprio “motherfuckers/figli di puttana” – dal vivo non vi sono dubbi che ascoltando The Mighty Sword, Teo oppure Endymion tutto è in funzione dell’interplay stellare e del respiro di ogni brano, dove fra accademia e grande improvvisazione non si può altro che testimoniare quanto Branford Marsalis sia un’eccellenza del jazz contemporaneo.

CICO CASARTELLI

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