Los Lobos, è sempre buongiorno Aztlán!

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I migliori, in un modo o nell’altro, sono sempre travisati, specie dai media, quelli senza orecchie – prendiamo i Los Lobos, che quando uscirono molti pensavano fossero un (evoluto) gruppo punk chicano, che quando conquistarono successo planetario con La Bamba qualcuno li bollò come “sensazione del momento”, che quando si diedero alla sperimentazione fra Kiko (1992), i Latin Playboys e il mai abbastanza osannato Colossal Head (1996) hanno lasciato molti ben interdetti, che quando suonano non sai mai se sia blues, rock, latin, soul, R&B, country, folk, mexican’n roll, psichedelica o un bel blend di tutto questo – bene, in tutto ciò a molti è sfuggito che i Lupi sono un caso tipico nella musica americana: non sono solo un gruppo ma come i Grateful Dead, la Band, le prime Mothers Of Invention, i Meters/Neville Brothers, gli Allman Brothers, i Blue Öyster Cult, i Beach Boys o i Little Feat prima di loro quanto i Phish, i Widespread Panic o i My Morning Jacket dopo di loro, sono ciò che si dice una famiglia, una music family. E come tutte le famiglie che si rispettino, anche i Los Lobos hanno il loro tratto peculiare, il marchio di fabbrica – che è naturalmente il sound – ovvero, senti un loro brano o un loro album, seppur nella grande differenza e costante ricerca che è facile riscontrare, ti viene sempre di dire che sì, sono loro! In breve, il sound non li tradisce mai, l’atmosfera nemmeno!

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Dal vivo tutto questo trova sempre di ché perpetuarsi come un’eterna primavera, come se il loro fosse un fiorire costante – insomma, chi li vede come fra i perfetti eredi dei Grateful Dead in particolare vede tutto nella giusta prospettiva – tanto che, notoriamente, la corrispondenza di ammirazione reciproca fra il Morto Gratificato e i Lupi è lì da ché David Hidalgo, César Rosas e compagni si affacciarono alla ribalta oramai diversi decenni or sono. E se di garanzia si tratta, i Los Lobos dimostrano valore e classe inalterati – tutto gira a meraviglia negli ingranaggi sempre ben oliati di questi infaticabili road warrior – grandi canzoni che mai sono venute meno, peraltro, le quali al confronto con il pubblico mostrano una caratura non comune – per non parlare dell’interplay tecnico, che se non sempre decisamente spesso sfiora il sublime.

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I momenti esaltanti dello spettacolo all’Estival Jazz di Lugano, confortato da un impianto audio assolutamente stellare che è una pura goduria per le orecchie (e che dovrebbe insegnare qualcosa a molti promoter e amministratori italiani), a conti fatti, sono molti – tipo quando il traditional divenuto super hit La Bamba si trasforma in Good Lovin’ dei Rascals, quest’ultima già uno punto fisso dei Grateful Dead specie anni Settanta (corsi e ricorsi Dead/Lobos…), quando con Will The Wolf Survive? tirano fuori l’eccellenza del miglior rock yankee del decennio yuppie, quando la tendenza alla jam con Más y más prevale ed esalta, quando tirano fuori le inimitabili atmosfere notturne di Kiko And The Lavender Moon, quando con Volver volver si lanciano nell’inno mexican rivoluzionario per antonomasia, quando giganteggiano con il rock & roll di Don’t Worry Baby e di Come On, Let’s Go (Ritchie Valens), quando sfoderano un infiammato medley che parte con Papa Was A Rolling Stone dei Temptations continua con la loro magnifica ballad up-tempo I Can’t Understand per chiudere con One Way Out di Sonny Boy Williamson via Allman Brothers Band – tutta roba per veri Lupi assassinati del este de Los Ángeles!

 

KIKO CASARTELLI

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