Il regime di Kilowatt

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Giuseppe Penone, Rovesciare i propri occhi, 1970
Giuseppe Penone, Rovesciare i propri occhi, 1970
Giuseppe Penone, Rovesciare i propri occhi, 1970

 

Breve introduzione a uso di chi non lo sa. Kilowatt è, più che altro, un Festival di teatro. Fine della breve introduzione. 

Il teatro immaginato da questa direzione artistica è, etimologicamente, luogo della visione, intendendo l’ultimo termine -evidentemente- non solamente in senso oculare. E oplà: ecco i Visionari, gruppo di pervicaci cittadini a cui è affidata la selezione di una parte degli spettacoli in cartellone.

Una autorialità a più teste-voci-mani-cuori-occhi che propone un fecondo e stratificato discorso (termine da intendersi foucaultianamente come «luogo dell’articolazione produttiva di potere e sapere») alla a volte distratta comunità di Sansepolcro e a quella, apolide, degli addetti ai lavori.

Una responsabilità smembrata / moltiplicata, quella del Festival di Sansepolcro. Persone che si son prese la briga di instaurare ciò che Jacques Rancière definisce «regime del sensibile»: un modo di organizzazione delle evidenze che determina il rapporto fra ciò che, in una data epoca o in un determinato contesto (certe persone e non altre a Sansepolcro nel caldo luglio del 2015, in questo caso) è sensibile e ciò che non è sensibile, fra ciò che è visibile e ciò che resta invisibile e -di conseguenza- fra ciò che è enunciabile e ciò che non lo è. Per chiarezza (e per esempio): a Kilowatt 2015 si è visto lo spettacolo di Oscar De Summa, e dunque se ne è potuto parlare, perché qualcuno ha deciso di invitarlo. Se così non fosse stato, lui non avrebbe potuto dir la sua, e noi non avremmo avuto modo di dir la nostra sul suo dire.

Fin qui, nulla di nuovo: questo è ciò che fa, con tutta evidenza, qualsiasi direttore artistico, illuminato o meno, di qualunque manifestazione, stagione, rassegna. Che sia uno, trino o multiplo.

Quel che pare doveroso sottolineare, in questa precisa occasione, è l’intenzione (nell’accezione ancora una volta etimologica di in-tensione, di spinta che dall’interno del soggetto muove verso l’altro da sé): se è vero, come scrive Michel Foucalt, che «ogni società si può giudicare dal modo in cui organizza e vive il rapporto con l’altro» la forza di questa proposizione (profondamente) culturale sta nel concentrare due spinte apparentemente opposte. Da un lato il riconoscimento strutturale che Je est un autre (Arthur Rimbaud docet), dall’altro l’ipotesi che un meccanismo specchiante, propriamente narcisistico, sia umanamente inevitabile: anche se “moralmente” non ci piace dichiararlo, non possiamo che vedere noi stessi in tutto ciò che ci circonda. Siamo fatti così.

Ecco la scivolosa domanda finale (rivolta a chiunque abbia voglia di condividere il proprio pensiero): è possibile scegliere spettacoli non perché essi risuonano/rievocano/richiamano pezzi di vita di colui/colei che è preposto a tale funzione, ma unicamente per una loro irriducibile ecceità/alterità? Per dirla meglio, parafrasando Calvino, e per allargare il campo: è possibile guardare a cose che significano se stesse e nient’altro? O forse questa è un’astrazione, e per di più moraleggiante?

Ringrazio fin d’ora chi avrà voglia di dire la sua.

MICHELE PASCARELLA

 

PS Non ho parlato degli spettacoli visti a Kilowatt 2015. Di due di essi ho già scritto, nei giorni scorsi. Per questo motivo non utilizzo alcuna immagine scattata al Festival, ad accompagnare queste righe. Propongo invece un celebre lavoro di Giuseppe Penone del 1970 il cui titolo riassume e rilancia la questione che ho tentato di proporre a tutti noi, qui: Rovesciare i propri occhi.

Kilowatt Festival – Sansepolcro (AR) – info: kilowattfestival.it