Taxi Teheran: una nazione tra quattro porte

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Taxi Teheran 1 (Jafar Panahi)Cinque anni fa, il regista iraniano Jafar Panahi, allora cinquantenne, già vincitore di svariati premi nei festival internazionali, viene incarcerato nel suo paese con l’accusa di aver raccontato le manifestazioni e sostenuto le proteste scatenatesi all’indomani della controversa rielezione di Mahmoud Ahmadinejad, nel 2009 di nuovo Presidente della Repubblica Islamica. Tra i promotori della cosiddetta «rivoluzione verde», il cineasta subisce la condanna, poi sospesa dietro cauzione, a sei anni di reclusione, e soprattutto l’interdizione, della durata di vent’anni, a dirigere, scrivere e produrre film, nonché viaggiare e rilasciare interviste sia all’estero sia in patria. Panahi inizia allora un percorso a ostacoli per realizzare, nonostante l’embargo, pellicole semi-documentarie sulla propria condizione, confezionate in modo da non sembrare film veri e propri (per aggirare la censura di regime), bensì collezioni di vignette immortalate per caso: This Is Not A Film (In Film Nist, 2011), accreditato alla collega Mojtaba Mirtahmasb, viene girato quasi per intero nel condominio dove l’autore abita, tramite la videocamera di un iPhone, mentre le riprese del successivo Pardé (2013) avvengono, clandestinamente, nel suo appartamento, tanto da costare a Kambuzia Partovi e Maryam Moqadam (co-regista e interprete principale) la confisca dei rispettivi passaporti. L’espediente alla base di Taxi Teheran (in origine, più semplicemente, Taxi) vede invece Panahi nei panni improvvisati del tassista che, grazie a un apparecchio portatile montato sul cruscotto dell’autovettura, riesce per un giorno a filmare i suoi passeggeri.

Taxi Teheran 2 (Jafar Panahi)Se la premessa naturalista ricorda il Jim Jarmusch di Taxisti Di Notte (Night On Earth, 1991), il preteso realismo dell’operazione viene però sconfessato fin dalle prime sequenze, quando un distributore abusivo di dvd piratati (probabilmente un attore lui stesso) riconosce il regista e ne smaschera il gioco delle parti – da un lato il cinico sostenitore della repressione, dall’altro la progressista di ampie vedute – attuato con la complicità dei due passeggeri/interpreti appena scesi. Così, Taxi Teheran, Orso d’Oro alla 65ma Berlinale, diventa subito una riflessione intensa e dolorosa sui limiti, i confini e il controllo della rappresentazione, suddivisa tra personaggi d’ispirazione verista (per esempio l’avvocatessa intenta a occuparsi del caso di Ghoncheh Ghavami, la ragazza sanzionata con un anno di isolamento per aver violato, o meglio, aver tentato di violare, il divieto di assistere a evento sportivo maschile) e altri palesemente artefatti (come le due corpulente detentrici di pesci rossi da restituire all’acqua), in un gioco continuo e vertiginoso dove s’intrecciano realtà e finzione, verità e menzogna, batterie di vincoli assurdi e il loro scavalcamento. Perché girare un film obiettivo oggi, a Teheran, non è possibile, e lo scopre presto anche Hana, la nipote del regista: dovrebbe realizzare un cortometraggio come saggio scolastico, e per questo chiede aiuto allo zio, ma catturare la quotidianità senza incorrere nel «sordido realismo» severamente proibito dalle autorità (come i contatti tra uomini e donne, l’uso di nomi persiani o la trasgressione del velo), nella fattispecie convincere un ragazzo in miseria a restituire ai legittimi proprietari i soldi trovati per strada, è un’impresa vana. Qual è, allora, la ragione, la motivazione ultima del girare, filmare, fare film, o almeno provarci, nel momento in cui l’osservanza cieca della legge coranica fa sì che due agenti in borghese ti rompano il vetro della macchina allo scopo di sequestrare la telecamera (provvidenzialmente priva di memory-card), di fatto terminando l’opera a loro insaputa e facendola così concludere, peraltro senza titoli di coda, né di testa, giacché entrambi non hanno ottenuto il visto del Ministero della Cultura e dell’Orientamento Islamico? L’urgenza di testimoniare, forse, la necessità quasi fisica, restituita con forza visiva dirompente dallo spazio angusto dell’abitacolo di un autovettura, di sondare l’espressività del cinema mescolando con gioia, sofferenza e disincanto pedinamenti zavattiniani, qui parafrasati a sportelli chiusi, e l’attesa quasi beckettiana di una liberazione impraticabile, dal regista cercata nei volti ora impazienti ora umanissimi, ora impacciati ora sofisticati dei suoi viaggiatori. Su tutto, con un’immedesimazione inevitabile e senz’altro foriera di appendici umane e personali di estrema amarezza, svetta l’amore del regista per la sua nazione, la sua fiducia nel potere del racconto, nella bellezza spoglia delle immagini e, com’ebbe a dire lui stesso in un discorso tenuto durante l’udienza del suo processo nel tribunale di Teheran, «nel rispetto e nella comprensione reciproca, così come nella tolleranza; la stessa tolleranza che mi impedisce di giudicare e di odiare». Dolente e sfuggente, Taxi Teheran è un omaggio alla libertà della macchina da presa, dispiegato, alla maniera di una rosa regalata alla videocamera, «in onore del cinema»: di chi lo guarda e di chi, pur in mezzo a fatiche atroci, non sa rinunciare a farlo.

Gianfranco Callieri

TAXI TEHERAN

Jafar Panahi

Iran – 2015 – 82’

voto: ****