(Contiene rivelazioni sulla trama.)
Dopo il successo planetario della prima stagione, contenitore di una delle serie più amate, citate e perché no parodiate nell’epoca della televisione digitale, la seconda annata di True Detective (d’ora in poi, TD 2.0) non è riuscita nell’impresa di ritrovare il consenso creatosi attorno alla precedente. Tuttavia, qualunque cosa si possa pensare delle nuove sceneggiature di Nic Pizzolatto, la pioggia di critiche con cui sono state accolte e, in ordine sparso, le accuse di lentezza, confusione, legnosità dei protagonisti, inutile moltiplicazione delle sottotrame, scarsa verosimiglianza, lacune narrative, proliferazione esasperata dei personaggi secondari, dispersione o, addirittura, ipocrisia moralista (secondo alcuni connaturata a una presunta «concezione negativa del sesso»), lasciano abbastanza perplessi, tanto da chiedersi se, in fondo, quanto si rimprovera a TD 2.0 non sia per caso il fatto di non essere un remake del prototipo targato 2014.
Si potrebbe anzi partire proprio da questo dato – la diversità rispetto alla prima stagione – per valutare serenamente pregi e difetti della nuova serie. Girata nelle pianure e nelle paludi della Louisiana meridionale, la “versione” inaugurale di TD immortalava il ritratto, intessuto di pessimismo filosofico e orrori contemporanei, di un Sud degli Stati Uniti gotico, sinistro, violento e superstizioso, pieno di contrasti lancinanti, patologie, perversioni e forme degenerate di integralismo religioso. Alla base di quello sceneggiato e, quindi, alla base dei contrasti tra i detective Marty Hart (tipico uomo del Sud, incarnato da Woody Harrelson, dal tratto virile, irascibile, donnaiolo, privo di dubbi e reazionario) e Rustin Cohle (lettore onnivoro e ateo disilluso in ragione delle passate sofferenze, con il volto smagrito e il nervosismo di Mattew McConaughey), c’era l’esperienza della realtà riportata da scrittrici come Flannery O’Connor e Katherine Ann Porter, o scrittori come William Faulkner e Tennessee Williams: la convinzione, cioè, che l’inferno esista e si materializzi nell’anima degli esseri umani, nell’arcaismo di un credo spirituale talmente rozzo da sconfinare in una sorta di bestiale paganesimo, persino dietro la facciata minacciosa del paesaggio, degli avvallamenti coperti da rampicanti, delle foreste di mangrovie così fitte da custodire intatta ogni goccia d’afa e ogni sfumatura di oscurità. Merito della riuscita dell’opera andava senz’altro ascritto alla direzione istrionica di Cary Joji Fukunaga (tra qualche mese dovrebbe uscire il suo Beasts Of No Nation, selezionato per il concorso del 72mo Festival di Venezia), regista unico di tutti e otto gli episodi, in grado di conferire all’intera stagione caratteristiche di uniformità anche in presenza di vere e proprie acrobazie come l’incredibile piano-sequenza di oltre 6’ nel finale della quarta puntata. Se affezionarsi ai luoghi, ai volti e ai protagonisti della prima serie era tutto sommato più semplice, anche perché il male veniva comunque «punito» (sebbene non sconfitto) e il rapporto tra i due personaggi principali, tornati a collaborare, dava luogo a una conclusione non solo positiva ma positivista (lo diceva lo stesso Cohle: Well, once there was only dark. If you ask me, light’s winning., «Una volta c’era solo il buio. Secondo me, la luce sta vincendo»), TD 2.0 sceglie invece di cancellare in partenza ogni possibile forma di empatia. I true detective di questa stagione inseguono i propri obiettivi non perché spinti dalla nobiltà della professione o dalla ricerca della verità, bensì a causa delle ossessioni personali da cui sono divorati, dei traumi più o meno recenti dai quali continuano a essere dilaniati. Lo sfondo delle vicende non è più quello affascinante e ricco di colori della natura della Louisiana, ma il panorama anonimo di un luogo immaginario – la cittadina californiana di Vinci – modellata sui sobborghi di Los Angeles sporchi, corrotti e disperati dei romanzi di Charles Bukowski, Robert Maupin Beck (in arte Iceberg Slim), Kate Coscarelli, dove i poliziotti si aggirano privi di un traguardo morale (seppur primitivo come, lo scorso anno, l’idea di Hart d’impedire la trasformazione del mondo in a freakshow of murder and debauchery, «un baraccone di omicidi e dissolutezza») e, invece, soltanto arresi alla violenza, al bere, forse alla consapevolezza di non poter sciogliere del tutto i propri istinti peggiori, in una coreografia interiore di sofferenze ininterrotte, dentro una sensazione di prigionia rinchiusa in frasi smozzicate, dialoghi troncati, sussulti inghiottiti sul nascere. Su otto episodi complessivi, per confezionare la nuova stagione sono stati usati sei registi diversi, e benché le diverse mani siano a tal punto avvertibili da nuocere al ritmo generale dell’intera serie, in genere piuttosto blando, l’avvicendarsi dei punti di vista ha però consentito di far convivere l’originalità di certe idee con l’obbligo di tradurle in un linguaggio accessibile a tutti proprio perché serializzato, frammentario e rispettoso dell’intelligenza dello spettatore, al quale non è richiesto di tirare tutti i fili della trama né di soccombere a facili consolazioni.
(1 – continua)
TRUE DETECTIVE Stagione 2
scritto e creato da Nic Pizzolatto
HBO / Sky Atlantic
USA – 2015