TRUE DETECTIVE Stagione 2, parte 4: Vivere e morire in California

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TD2 - 2(Contiene rivelazioni sulla trama.)

Un giansenismo di stampo bressoniano – si diceva – permea ogni fotogramma di TD 2.0, e nell’ultima puntata ciascuno dei protagonisti cade, in modo diverso, a terra, incapace di sorreggere il peso della propria croce. A confermare la natura, diciamo così, cristologica della serie provvede anche il cambio del tema musicale sui titoli di testa: al tetro hillbilly degli Handsome Family di Far From Any Road si sostituisce il Leonard Cohen di Nevermind, una preghiera (laica) sulla crudeltà feroce della Storia sgranata sopra un recitativo in lingua inglese e araba. E anche le canzoni disseminate lungo gli episodi, in una colonna sonora ancora una volta supervisionata dall’esperto T-Bone Burnett, sono (con l’eccezione di una sequenza in cui Velcoro si sbronza e tira di coca al ritmo delle New York Dolls di Human Being) quasi tutte affidate alle fragili, drammatiche ballate (due di queste scritte a quattro mani con Rosanne Cash) in cui Lera Lynn – la cantante del bar dove s’incontrano Velcoro e Semyon – dispiega le proprie metafore del suicidio (vi consiglio di recuperare il suo secondo album, The Avenues [2013], stupenda raccolta, autoprodotta e distribuita in proprio, di esemplari country-folk tra gli ipnotici affreschi rootsy di Gillian Welch e le cantilene catacombali di Nico). Il clima di pessimismo cosmico, assoluto e dilagante, reso evidente persino dalla recitazione volutamente catatonica degli attori, ognuno di loro impegnato a parlare attraversi timbri così strascicati e faticosi da lasciar supporre difficoltà respiratorie, non trova però, come detto, alcuno sfogo, nessuna catarsi melodrammatica o violenta.

TD 02 - 4Malgrado gli scoppi di violenza non manchino (difficile dimenticare le immagini in cui Semyon prende in mano una tenaglia per staccare dalle gengive i denti d’oro di un pappone) e parimenti si dispieghi il melodramma (risponde alle regole del genere, per esempio, il momento dell’apertura della busta contenente gli esiti del test di paternità da parte dell’ex-moglie di Velcoro), nessuno dei due risulta liberatorio. Le emozioni, proprio come in un film di Bresson, vengono trattenute, sempre, e dissipano i personaggi dall’interno. È la scelta del Pizzolatto “autore”, deciso a imprimere la propria impronta fino in fondo, talvolta a discapito della coerenza del racconto d’insieme e dell’efficacia di alcune rivelazioni in teoria determinanti (vedi la possibile paternità dei fratelli Osterman, altro caso da manuale di incubo edipico). Ecco, insomma, che TD 2.0 funziona senza intoppi come prodotto d’autore, allineando in piena luce tutti gli elementi utili a sottolineare il tocco del suo creatore, e un po’ meno come prodotto seriale, in parte compromesso dall’eccedenza di estensioni narrative appena sfiorate e un secondo dopo buttate via. Analogamente rigoroso appare lo stile visivo, di nuovo sensibile a qualche rimando all’universo di David Lynch (più citato, comunque, nella prima serie) e somigliante, soprattutto nella sparatoria assordante e realistica (con inseguimento a piedi successivo all’esplosione di un laboratorio di droghe sintetiche) del quarto episodio, a una rilettura, spogliata di ogni accento epico, del William Friedkin bruciato dal sole di Vivere E Morire A Los Angeles. C’è spazio anche per un richiamo a Viale Del Tramonto (nel corpo del sindaco Austin Chessani che galleggia, senza vita, in una piscina, inquadrato da dentro l’acqua come il William Holden del film di Billy Wilder), ma si tratta di un omaggio estemporaneo e in fondo ininfluente a una delle pellicole più cupe e sferzanti di sempre sul divismo hollywoodiano. Per il resto, sebbene il montaggio ipotattico dell’ultima puntata configuri un vero e proprio esercizio di virtuosismo, nessun cedimento a tentazioni spettacolari, solo l’inseguimento stilizzato, tagliente e severo della deriva inesorabile di un pugno di (anti)eroi solitari, silenziosi, uniti dal destino per aprire un’ennesima porta sul buio dell’animo umano. Perfino nelle scene più accese, dal pestaggio inflitto a Semyon nel deserto (dove la luce accecante frantuma profili e volumi) allo scontro a fuoco, nei sotterranei oscuri della città, tra gli uomini della Black Mountain e Woodrugh (che ne uscirà cadavere) mentre la compagna di questi, incinta di lui, si commuove guardando in tv Natalie Wood, diretta da Elia Kazan in Splendore Nell’Erba, ogni ripresa viene sottoposta a un controllo formale impeccabile, in modo da mettere insieme una rappresentazione quasi liturgica della tortura compiuta dagli esseri umani sui propri simili, la messa in scena accorata delle decine di rifrazioni – gli abusi familiari, l’emarginazione, le psicosi, i fantasmi del passato – della sofferenza tra creature. Pizzolatto non si interroga sul senso del male, come possono in precedenza aver fatto cineasti quali Abel Ferrara o Michael Haneke (oppure ancora, in ambito romanzesco, Harold Pinter o lo svizzero Friedrich Dürrenmatt). Lo dà per scontato, lo osserva con sguardo cupo e disincantato, immerso in un estenuante grigiore: così i suoi personaggi, intrappolati nelle gabbie dei propri desideri irrealizzabili seppur privi del coraggio, della pulizia, dell’amore e della fede necessari a spezzarle. Ancorché elementare, la più volte richiamata etica di TD 2.0 è scontata solo a condizione di ignorarne l’evidenza quotidiana. «Abbiamo il mondo che ci meritiamo»: e non gli umili, ma i più disumani e spietati, erediteranno la terra. Se non l’hanno già fatto.

(4 – fine)

 

TRUE DETECTIVE Stagione 2

scritto e creato da Nic Pizzolatto

HBO / Sky Atlantic

USA – 2015