Saluti dall’Appennino… all’Adriatico – parte 2

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saluti da… 2« – Dicevamo, Signorina Gelsomina, del territorio e delle sue produzioni. Per esempio le tigelle…

– Signor Saturno la prego, su questo argomento mi tocca veramente nel vivo: nell’Appennino modenese – il loro luogo d’origine – si chiamano crescentine in tigella, perché la tigella è la pietra con cui dovrebbe esser cotta la pasta…

– Già, ma si ricorda quando abbiamo mangiato le tigelle di grano e di farro, anzi, le crescentine in tigella della Fattoria Ballarana di Montalbano di Zocca? Davvero non sembravano neanche tigelle, eppure vengono dall’Appennino e a me non sono dispiaciute per niente. Può darsi la tradizione cambi persino da frazione a frazione!

– Infatti quelle, per me, non erano mica… ehm… crescentine, sa… però non eran proprio niente male… oh, d’altronde la tradizione alimentare, se è viva e vissuta quotidianamente, si modifica e si trasforma pur restando fedele a se stessa. Difatti alla Fattoria Ballarana e al vicino Agriturismo La Fenice, che si trova nei pressi della Rocca di Roffeno, tra Tolè e Castel d’Aiano, in Appennino, allevano la Mora Romagnola, una razza di suini (nonché presidio Slow Food) proveniente da Ravenna: bestie nerognole, lunghe, dal mantello scuro, eppure in grado di assicurare salumi favolosi come quelli assaggiati da noi! Ermanno Tomaso della Ballarana le alleva all’aperto, le lascia libere di pascolare l’erba, nutrendole di alimenti naturali, e quando si assaggiano gli insaccati si sente tutto questo: il ciclo della natura e le stagioni e l’aria respirata dagli animali…

– È un sapore che nelle proposte di tutti i produttori locali radunati sotto la pagoda dell’Allumière si sente spesso. Però, mi permetta, io di sentir parlare sempre di biologico, chilometro zero, vegano addirittura, a nin pos piò! Mi prende lo sfinimento.

– La capisco, eccome, soprattutto perché si tratta di etichette sulle quali c’è una gran confusione. E perché spesso si tratta di orientamenti seguiti solo per moda, per tendenza, da gente che indossa la divisa per principio, senza alcuna flessibilità (diventando a volte anche un po’ maniaca… che fa anche un po’ paura). Ma è un peccato, accidenti, perché certe scelte dovrebbero indicare prima di tutto, al di là della giusta decisione di rispettare le altre creature e nutrirsi in modo sostenibile per l’ambiente, una consapevolezza del proprio stare al mondo. Anche mangiare significa assumere una responsabilità. E possibilmente, resistere: alla moda, al pensiero unico, alla faciloneria.

– Sì, ma, sócc’mel

– Prego?

– Eh, mi scusi, intendevo… accipicchia… cambio discorso, altre cose non mi spiego, per esempio, quei ragazzi di Cattolica… ma cos’è un «laboratorio ittico alimentare itinerante»?

– …vuol dire che le cuociono o le sfilettano il pescato davanti agli occhi… (Signor Saturno, la prego, un’altra volta, non mi faccia fare la maestrina… ). E poi sono onesti, intendo quelli di Pescevia, raccolgono lo stagionale dal porto di Cattolica e glielo portano in giro, sui loro bei furgoni, per i vari Mercati della Terra, dalla riviera fino a Carpi. È pesce fresco cucinato al momento, in base alla disponibilità e senza forzature. Mi pare le sia piaciuta, la mormora alla griglia, no?

– Sì, sì, ma anche le sardine erano buone, le acciughe pure, e le seppie, le cozze (delle quali se non ricordo male ho fatto il bis)… In effetti ho mangiato come un otre… insomma non posso mica mangiare solo della clorofilla, io! Che poi divento verde! Ecco perché ho lasciato assaggiare a lei i dolcetti e le pietanze preparate da Alchemilla e io mi sono abbuffato di pesce! Son stato contento, sì.

– Ma guardi, io son stata sempre contenta, venendo qui, perché ho mangiato cibo naturale senza troppa cipria intorno. Se gli ingredienti e le materie prime di un pasto arrivano da un luogo vicino a quello di consumo, ne guadagniamo in salute e ne guadagna anche il portafogli, che si apre di meno perché non ci sono i costi di trasporto o di conservazione. Che poi, mica sempre questo garantisce prodotti di qualità, ma se stabilisci un rapporto di fiducia e conoscenza col produttore, allora non sbagli. E poi se la maggioranza del reddito rimane in tasca agli agricoltori, agli allevatori o ai titolari dei birrifici, anziché alle multinazionali dell’agroalimentare, io le dirò, ne sono assai soddisfatta!

– Già, Signorina Gelsomina. È una questione di stile di vita e di democrazia, no?

– Sì, Signor Saturno. Se proviamo a praticarla anche col cibo, la democrazia, e non la affidiamo alle rassicurazioni di un cartellino dell’ipermercato, alla tendenza del momento o alla mancanza di senso critico, facciamo un bel passo. Non le sembra?»

(2 – fine)

 

ALLUMIÈRE

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