Don Henley, preghiera per la pioggia

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Achtung, attenzione – se siete degli “snoboni” che pensate a gente tipo Bryan Ferry, Peter Gabriel, David Gilmour o Donald Fagen, giusto per citarne qualcuno, quali strani animali vecchiardi del passato da evitare come la peste, allora fermatevi qui – questa lettura non fa per voi. Per tutti gli altri, benvenuti all’eccellente nuovo album di Don Henley, «l’uomo dalla voce d’oro» per citare una famosa espressione di David Geffen, la magnifica ugola che ha fatto volare alto, molto alto gli Eagles. Cass County è solo il quinto album solista di Don in trentacinque anni di carriera in proprio, da quando le Aquile (temporaneamente) si sciolsero nel 1980 – non peraltro, Henley è un perfezionista, uno che non lascia niente al caso, probabilmente è pure un biz-man spietato, tanto che è l’unico ad aver messo ko il già menzionato Geffen, la volpe!, in una famosa querelle monetaria (contrariamente a Neil Young, che sistemò la propria di querelle con un gentleman agreement) – ma non ho un singolo dubbio che davanti a tutto egli abbia sempre messo la qualità del proprio prodotto. Spiace per i detrattori, ma i fatti gli danno ragione.

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L’uomo dalla voce d’oro – pensateci, Don Henley ha veramente dominato tutti i generi che gli sono capitati di dover affrontare: il country rock molto cocaine cowboy, la disco music (One Of These Nights, se non è disco music quella…), il miglior cantautorato, l’hard rock, il soft rock, la musica sinfonica (l’immortale The Last Resort, massimo brano delle Aquile), l’urban funk (suggerimento spassionato, ripescare Those Shoes, perla nascosta in The Long Run, 1979) l’adult contemporary, la musica impegnata – in sostanza, artista completo di quelli che, ahinoi!, non ne fanno più. Cass County chiude il cerchio, nel senso che l’uomo torna a casa – Don è un good ole boy texano, pertanto la musica country, quella più tradizionale, gli è sempre scorsa nel sangue, volenti o no. Solo che Don sa come rivisitarla, eccome.

Don Henley con Dolly Parton
Don Henley con Dolly Parton

L’album è molto ambizioso – già il fatto che duri oltre un’ora per sedici brani (ne esiste una versione da dodici, sconsigliata) spiega molto ma la vera aspirazione è l’intendo in sé: scrivere per lo più brani originali nella vena che ha reso immortale gente come per esempio George Jones, con in oltre tutta una serie di ospiti di peso a contrappunto del protagonista. Collaboratore fondamentale di Don è quel Stan Lynch che i fan di Tom Petty & The Heartbreakers si ricorderanno benissimo, siccome ne fu batterista per quasi vent’anni – i due cooperano fin dei tempi di The End Of The Innocence (1989), produzione e scrittura dei brani, peraltro con risultati per larghi tratti a dir poco entusiasmanti. Che qui si confermano.

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L’apertura di Bramble Rose, brano di Tift Merritt vecchio di una dozzina d’anni, è quanto di meglio si possa attendere quale prologo a un disco di questo tipo: Don si fa affiancare al canto per uno splendido “trietto” da Miranda Lambert e, insospettabile, Mick Jagger (sua anche l’armonica che si ode), gonfio di steel guitar e di pathos da vendere, dove il tutto non potrebbe suonare più George Jones di così. Appena dopo tocca a un duetto con Merle Haggard, The Cost Of Living, una di quelle storie di working men che entrano nel profondo dell’America campestre. E sempre in tema duetti, altro stand out è quello con Dolly Parton, When I Stop Dreaming, con i due che vanno a nozze in una ballata con bel gusto mieloso ma non per questo stucchevole, anzi – un tipo di brano che ha una sua nobile tradizione, a ben vedere.

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Il capolavoro del disco è pero Praying For Rain, ballata rurale dove Don sfodera il meglio delle proprie doti vocali, un arrangiamento levigato e un testo che racconta di vita quotidiana senza scadere nel lezioso, anzi, ma con risvolti politico-ecologisti – in poche parole, alla lunga potrebbe essere ricordato come uno dei pezzi più belli dove Don Henley abbia posto voce e firma fra Eagles e lavori in proprio. Altra meraviglia è She Sang Hymns Out Of Tune, brano leggendario di Jesse Lee Kincaid (chi se lo ricorda con Ry Cooder e Taj Mahal nei Rising Sons?), qui spoglio con arrangiamento ridotto al minimo che fa venire a galla tutto l’amore di Don per Gene Clark, grazie pure a una lontana somiglianza con la leggendaria Spanish Guitar del compianto Byrd – peraltro, quando prima di prender il volo con gli Eagles Henley e Glenn Frey arrivarono a Los Angeles in cerca di fortuna, più di tutti era per due “Uccelly” come Clark e David Crosby che provavano ammirazione.

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Sugli stessi registri, Train In The Distance, ballata con ospite Lucinda Williams – elegiaca come uno Stand By Me in formato canzone (Stand By Me nel senso del film tratto da Stephen King), dove i ricordi d’infanzia si sciolgono in un gran lirismo. Altro momento meritevole di menzione in un disco comunque davvero splendido dall’inizio alla fine, è la cover di The Brand New Tennessee Waltz, capolavoro AD 1970 del poco tempo addietro scomparso Jesse Winchester, con ospite Alison Krauss – l’eccezionale voce di Don Henley semplicemente ne nobilita poesia, perfezione formale di scrittura e il già rispettabile lignaggio di coloro che nel tempo ne hanno affrontato l’interpretazione: gli Everly Bothers, Joan Baez, i Walker Brothers, Lyle Lovett e Ronnie Hawkins, solo per nominarne alcuni. Per il resto, Cass County va solo spinto a far proseliti – album del genere se ne contano mica troppi di questi tempi.

CICO CASARTELLI

DON HENLEY – Cass County (Capitol)

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