Il déjà vu di Crosby Stills & Nash

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Devo ammettere che la notte prima del concerto di Crosby Stills & Nash ho fatto un sogno, dove uno a caso dei tre usciva in barella, l’altro con la flebo e l’altro ancora in sedia a rotelle. Niente di più errato, non era un sogno premonitore ma solo uno di quelli dove tutto era sarcasticamente confuso – i tre venerandi dell’epopea West Coast sono, invece, in buonissima forma per quanto possono esserlo dei settantenni con alle spalle una storia di peso e di abusi come la loro.

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Per farla breve – Stephen Stills, uno accidentale giusto per dar inizio, nonostante una voce che forse ha perso lo smalto di un tempo, alla chitarra non sbaglia né un attacco né un’entrata né un assolo, e i solo sono di quelli che capisci perché della magia di certi dischi e di certi concerti che lo hanno reso la leggenda che è. David Crosby come sempre è il solito amabile bastardo indolente ma con il dono di una voce d’oro, uomo addestrato a fare quello che fa sui pontili di Coconut Grove nei primi anni Sessanta mentre era lì a venerare Fred Neil e Vince Martin – come sempre complesso, Croz racchiude in sé il folk americano, la spacconeria rock, il candore delle spiagge californiane, lo stupore della scoperta anche quella più banale. Graham Nash, piedi nudi, è il solito gentleman inglese catapultato a Los Angeles e maestro di cerimonie dal cuore leggero che i cuori, con il suo piglio pop, comunque li scalda, dandoti l’idea o l’illusione che una speranza forse c’è.

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Il resto lo fa il pubblico che li porta in trionfo con tifo da ultras e con applausoni assordanti – il film è già visto, è riproiettato per regalare un ché di consolatorio a chi i capelli li aveva lunghi e ora in gran parte o li ha persi o si sono inesorabilmente ingrigiti o entrambe le cose – ma anche per far sognare chi non c’era ancora all’epoca del fulgore Crosby Stills & Nash, come quando si assiste a un film la cui sceneggiatura è unica e irripetibile.

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Qui la sceneggiatura, ben giocata anche grazie a una band che non sbaglia nulla e può vantare il venerabile Russ Kunkel alla batteria e Shane Fontayne alla chitarra (chi se lo ricorda alla corte di Bruce Springsteen nei primi anni Novanta?), ha capitoli che si intitolano Carry On/Questions, Marrakesh Express, Long Time Gone, Cathedral – l’intreccio di voci fra Nash e Croz ha sempre del miracoloso – Déjà Vu, addirittura Bluebird dei Buffalo Springfield con Stills al proprio meglio, Helplessly Hoping, Guinnevere, Chicago, Almost Cut My Hair, Teach Your Children, Wooden Ships – con ancora Stills a dettare legge con una gran parte di chitarra di quelle che lo hanno reso irreale – Suite: Judy Blue Eyes che sempre ti fa apparire davanti lo splendido viso di Judy Collins – canzoni che per molti sono il verbo, il testo sacro, il talmud da recitare davanti al muro dei pianto – una sceneggiatura che in una sera qualunque di un’epoca lontana da quando fu redatta in origine, funziona ancora bene. In parole povere, approfittarne finché dura.

CICO CASARTELLI

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