Tim Rogers, il detenuto di Oz

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Tim Rogers è veramente un tipo pieno di charm – arriva con la sua chitarra dall’Australia a passare una vacanza in Europa e in quattroequattrotto ecco pronto un concerto per pochi ma buoni – insomma, Tim lontano del palco non resiste. Certo, incontrarlo con i You Am I è un’altra cosa – chi scrive ha avuto la fortuna di vederli in azione lo scorso giugno a Londra quali opener dei Replacements in reunion: fuoco e fiamme garantite! – ma anche da solo in versione spartanissima la scintilla bel performer navigato, quasi piratesco, non gli manca davvero. E poi con quell’aria dandy-mod che fa molto Pete Townshend, Keith Moon o Ray Davies, ribadisce il suo amore sconfinato per il beat originario sia dei Who sia dei Kinks – visto che come i suoi numi tutelari, pure lui ci tiene a far sapere che quando sale su di un proscenio promette sempre di «vestirsi di tutto punto, di arrivare sul palco, di sfondare gli amplificatori e di ribaltare tutto». Ah, il vecchio caro rock’n’roll!

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Ad aprire la sera tocca a Edward Abbiati, noto ai più come frontman dei Lowlands, il quale va ringraziato anche perché è stato lui che, essendone buon amico da diversi anni, ha convinto Tim in questa estemporanea avventura italiana (ricordiamo che Tim sarà Da Trapani a Pavia l’11 ottobre). La sua immedesimazione folkie è buona e soprattutto convince il pubblico che gli tributa un bel plauso – che lui si merita per il sano approccio alla materia, come spiegato in numeri come Ashes o In The End.

Edward Abbiati
Edward Abbiati

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Poi arriva lui, il dandyssimo Rogers, che ancora ci ricordiamo atomico compagno di Tex Perkins una decina di anni fa in un breve tour europeo che toccò l’Italia per una performance che chi c’era non scorderà mai, animale del palcoscenico fatto e finito, simpatia contagiosa e battuitismo del gran affabulatore – le facezie che racconta sono da breviario comico, tipo «che nessuno parli durante le canzoni mi colpisce molto – sapete, arrivo dall’Australia e lì quando suono succede di tutto, la gente sputa, scazzotta, una volta in sala ho visto anche volare spruzzi di sperma» oppure «credete alla vostra barista o al vostro spacciatore o a chi volete – ma non credete mai a un cantastorie». Da aggiungere, infine, vi è la sua musica, quella dai dischi dei You Am I che lui ama definire «album dove non mancano il grasso, le ossa e le tutte frattaglie possibili» – in pratica Tim Rogers adora badare al sodo, non si gingilla con orpelli ma va dritto al cuore della faccenda, come anche stavolta ha stabilito con la sua bella serie di pepite in forma canzone: City LightsDamageWhat I DunnoCars & Girls, Heavy Heart, Please Don’t Ask Me To Smile, Part Time DadsWeedsIf We Can’t – cui aggiungere la splendida Motel Blues di Loudon Wainwright III, regalata intensa e tagliente come dev’essere un pezzo con versi immortali quali «Chronologically I know you’re young/But when you kissed me in the club you bit my tongue/I’ll write a song for you/I’ll put it on my next LP/Come up to my motel room, sleep with me»

CICO CASARTELLI

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