César Brie, quarant’anni a rincorrere il sole

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César Brie (foto Cristina De Maria)
César Brie (foto Cristina De Maria)
César Brie (foto Cristina De Maria)

Nato a Buenos Aires nel 1954, scappato in Italia negli anni ’70 per sfuggire alla dittatura militare argentina, César Brie sogna ancora di lasciare il nostro paese, dove continua a vivere, a lavorare (pur dividendosi con l’America latina) e a fare il papà di due figlie piccole, e fare ritorno all’amato Sudamerica. Da spettatori, però, è impossibile non ringraziare, in qualche modo, le contingenze che lo trattengono qui e rendono possibile, in certe occasioni speciali come quella di mercoledì scorso al Circolo Arci Ribalta di Vignola (MO), trovarselo di fronte per un discorso pubblico sul teatro, sulla politica e, inevitabilmente, sulla vita stessa (perché dalla vita e dal vissuto i lavori del teatrante campesino prendono sempre origine: «Attraverso il teatro cerco di drenare le ferite del vivere»). Ascoltare Brie e riflettere con lui sull’essenza del teatro significa rendersi anche conto di come la cultura, in questo paese, possa ancora essere una forma di resistenza, estranea alle logiche delle consorterie intellettuali, a quel circolo vizioso di favori, sotterfugi e ricatti, da lui definito «un’oscenità fatta legge» (nel contesto di un’economia dello spettacolo «che obbliga gli artisti a diventare mendicanti dei potenti»), spesso predominante all’interno del circuito teatrale più visibile; una forma di resistenza il cui scopo è quello di scuotere, commuovere e «interpellare» il pubblico, raggiunto attraverso altri canali, più piccoli e maneggevoli della media, e chiamato in causa tramite produzioni minime, leggere, “portabili” e soprattutto ostili alle ipocrisie del pensiero prevalente e alle verità della cosiddetta storia ufficiale. Sul piccolo palco del Ribalta, stimolato dalle domande di Maria Pia Cavani, Brie ha ricordato l’adolescenza sudamericana e i primi incontri con la pratica del teatro («il luogo in cui il corpo viene messo in discussione»), vissuti nell’incertezza di chi vi si accostava per vincere un innato pudore, nonché, in un periodo di grandi letture (il padre era libraio), e la scoperta di tre testi – Il Teatro E Il Suo Doppio (Antonin Artaud, 1938), Stanislavskij Dirige (Vasiliĭ Osipovich Toporkov, 1949), Per Un Teatro Povero (Jerzy Grotowski, 1968) – fondamentali nello scolpirne la vocazione artistica e i criteri professionali. «Lavoro per me stesso, ma il pubblico non mi è mai indifferente», ha spiegato Brie commentando la sua fedeltà a un’idea della messinscena dove il coinvolgimento e l’immedesimazione degli spettatori non sono mai un fattore secondario. «Sono d’accordo con Kantor [Tadeusz, pittore, scenografo e regista teatrale polacco, ndr] quando dice che non c’è arte senza autobiografia, perciò cerco sempre, dicendo di me, di dire di voi, di fare in modo che la mia biografia possa appartenere agli altri. Il teatro, per me, è questo: una figura del riconoscimento, un modo per rendere universale la dimensione intima, un mezzo per tornare a vedere di nuovo noi stessi».

Il mare in tasca, 1989
Il mare in tasca, 1989

Vissuto, storia personale e bisogno di trasmettere la propria intimità hanno portato Brie, in eterno pellegrinaggio tra Italia, Danimarca, Argentina, Cile e Bolivia, a diventare il portavoce di un teatro colmo di istanze sociali, provocatorio, militante (ancorché privo di tessere di partito o patronati politici), in continuo dialogo con le platee convocate a testimoniare e partecipare: «Voglio che il pubblico capisca, che si interroghi. La commozione, per come la intendo io, nasce quando cervello e cuore si attivano insieme, in un intreccio di bellezza e verità. È una prassi, non una teoria estetica. Rifiuto le alleanze di natura estetica tipiche della mafia culturale progressista di questo paese». Sull’Italia, raggiunta da profugo, a Milano, nel 1975 (creò, presso il Centro Sociale Isola, il Collettivo teatrale Tupac Amaru e sempre qui, tre anni dopo, scrisse e allestì il suo primo spettacolo, A Rincorrere Il Sole, disperato assolo sul suicidio come metafora di una sconfitta generazionale e politica), e sui suoi campanili, le sue furbizie e le sue corporazioni, Brie ha molto da dire. «La mediocrità trionfa. Mai visto così tanti premi e così tanti festival, ma si tratta di occasioni in cui uno sfigato premia un altro sfigato», ha puntualizzato il regista. «Io, su certi aspetti, non intendo cedere. Non cedo sulla dignità. Sull’etica. E so che sono le lotte, a cambiare le cose, a rendere norma ciò che prima era illusione. I “luoghi” del teatro sono in mano a chi deve barattare favori, scambiare un cartellone con un altro cartellone. I teatri stabili si scambiano gli spettacoli, in una catena indistruttibile e degradante. Chi non ha agganci, contatti nei ministeri o conoscenze tra gli assessori, di teatro non riesce a vivere. Ripenso al mio esordio e mi viene in mente una cosa bellissima, tra le tante che mi vennero dette all’epoca. Lo feci vedere in anteprima alle mie due fidanzate di allora (già, ne avevo ben due in grado di sopportarmi) e loro mi dissero, “Ti abbiamo creduto”. E sebbene fossero tempi difficili, in cui facevo la fame al punto da essere ricoverato due volte per anemia, non chiedevo e non chiedo altro se non questo: creare qualcosa e poterlo condividere con gli altri. Oggi, in Italia, non è possibile fare e mostrare qualcosa di onesto, di bello, di vero, perché il colpo di grazia te lo dà l’accesso o l’esclusione dal finanziamento pubblico. I giovani e gli indipendenti restano schiacciati, oppure vincolati a questa lotteria umiliante».

Orfeo ed Euridice, 2013
Orfeo ed Euridice, 2013

Le rimostranze di Brie, comunque, non rappresentano la frustrazione di un artista costretto all’inattività: il regista, infatti, continua a produrre a ritmi impressionanti, e tra corsi, seminari, libri, riviste e produzioni varie, non ha mai ritrattato gli elementi cardine della sua pratica. “Continuo a scrivere testi per le scene, non sceneggiature antecedenti”, ha commentato a proposito del recente Orfeo Ed Euridice (2013), rivisitazione del mito virgiliano incentrata sul tema dell’eutanasia (argomento già esplorato nello struggente Il Mare In Tasca del 1989). «E spesso cerco di immaginare le scene improvvisando con gli allievi, durante i seminari. Cerco di trovare le cose comuni a tutti (paradigmi, le chiamo) – quelle che mi permettano di parlare per noi pur dicendo io – scandagliando le vite e i gusti degli allievi, dei ragazzi. Un po’ perché, in fase preliminare, amo l’improvvisazione, e un po’ perché è necessario ricordarsi del pubblico, pensarlo anche nel corso della pre-produzione di uno spettacolo. Le avanguardie, purtroppo, hanno in molti casi dimenticato il loro rapporto con il pubblico». Parlando dell’ultimo La Volontà – Frammenti Per Simone Weil, quest’anno coprodotto dai lucchesi Teatri del Sacro e dall’accademia milanese Campo Teatrale, Brie trova un riassunto al solito commosso, battagliero e lucidissimo di quarant’anni di attività, rivisitati nella figura della filosofa, mistica e scrittrice francese, morta di consunzione all’età di 34 anni, da alcuni (Brie compreso) annoverata tra le più grandi pensatrici del ‘900 e non solo. Non è difficile capire cosa, nel pensiero di chi affermava come il bisogno di verità fosse “il più sacro di tutti”, abbia  affascinato Brie: «Lei si era affezionata al “destino dei folli” in Shakespeare, al destino di quei pazzi cui spetta il privilegio di poter dire la verità perché nessuno li ascolta. “Dire la verità al prezzo di un’indicibile degradazione, dire la verità e non essere ascoltata”, ripeteva Simone Weil nelle lettere scritte ai genitori nei giorni estremi. Questo spettacolo è un omaggio al suo coraggio, alla sua capacità di comprendere le cause dei fenomeni in atto e intuire il futuro». Coraggio, comprensione del presente e intuizioni sul futuro, del resto, sono anche i tratti principali della fisionomia del teatro di César Brie, esempio mai scontato di una drammaturgia dove verità scomode e profonde, inquietudini e rimpianti risuonano con straordinaria potenza espressiva. Perché etica e dignità, come il tempo, saranno pure non rappresentabili, ma César Brie, senza dubbio e per fortuna, continua a servirsene, a ogni nuovo spettacolo, per dimostrare come la forza di un’idea, di un amore, di un dolore, risieda soprattutto nel suo essere, al di là della apparenze e della messa in scena, acuta e sentita. In una parola, vera.

Gianfranco Callieri