I migliori film del 2015

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(I migliori film usciti nelle sale italiane nel corso del 2015, a sindacabile e discutibilissimo giudizio dell’autore della classifica):

Inside Out1. INSIDE OUT (Pete Docter, Ronnie del Carmen – Usa, 2015, 95’)

Le cinque emozioni – Gioia, Paura, Rabbia, Disgusto e Tristezza – che presidiano le reazioni e il cervello (dove hanno il quartier generale) di una pre-adolescente, la aiutano a superare un momento difficile e a crescere un po’. Tra Kubrick e poesia surrealista, uno dei migliori film della Pixar, nonché il capolavoro dell’anno, incapace di esaurire sorprese, invenzioni, segreti e dettagli anche dopo visioni multiple. Nessuno come lo studio di Emeryville sa, oggi, essere intenso, lacerante e al tempo stesso godibile, ellittico, allusivo e in concomitanza coinvolgente per tutti. Riley, la protagonista del film, non è, come qualcuno ha detto, un automa privo di libero arbitrio, ma la rappresentazione dolente e, per forza di cose, in attesa di emancipazione emotiva, del nostro mondo straziato e frammentario sebbene sempre connesso, in una corsa continua tra allegorie pluridimensionali, metafore della visione e addii malinconici.

National Gallery2. NATIONAL GALLERY (Frederick Wiseman – Fr/Usa/Uk, 2014, 180’)

L’occhio di un grande regista entra nella National Gallery di Londra e, attraverso un procedimento consolidato (nessuna intervista diretta, nessun commento musicale, nessuna restrizione alla circolazione di visitatori e manutentori), ne coglie la vita, il mormorio quotidiano, gli aneddoti, l’atmosfera, il lavoro di tutti i giorni. Interessato alle persone – tecnici, appassionati, scolaresche, membri del consiglio d’amministrazione del museo – anziché ai quadri o alle opere, pur sfiorati con lo sguardo, Wiseman affonda il suo bisturi oculare nell’entità sensoriale di un’istituzione londinese rifuggendo schematismi e banalità. La precisione accademica dello stile non tradisce l’efficacia del discorso filmico: vedere significa ancora una volta, e più di tutto, respirare.

45 anni3. 45 ANNI (45 Years; Andrew Haigh – Uk, 2015, 95’)

Prima delle celebrazioni per i 45 anni di nozze, una vecchia tragedia torna a insinuarsi nella vita di una coppia, deteriorandone la solidità e compromettendone l’affetto. Costruito sulle geometrie di una regìa invisibile, eppure spietata, e sulla recitazione magistrale di Tom Courtenay e Charlotte Rampling, quello di Andrew Haigh è un viaggio crudele negli slittamenti dell’abitudine amorosa, incuneato nella fragilità dei sentimenti senza fare appello a ornamenti o alibi estetici. Un saggio di esattezza accanita sull’incrinarsi di certezze minate dal dubbio e dal ripensamento, dove gli sguardi, le pause, gli angoli scuri di una casa di campagna e le esitazioni dei corpi possiedono la stessa forza di una mutazione aliena, in apparenza minimale e sommessa, in realtà orchestrata con sapienza cinematografica invidiabile.

Blackhat4. BLACKHAT (Michael Mann – Usa, 2015, 133’)

Un hacker di eccezionale talento viene scarcerato affinché scopra chi si cela dietro gli attacchi informatici di cui sono vittima Cina e Stati Uniti. Snobbato dalla critica e disertato dal pubblico, Michael Mann continua a mettere in scena la solitudine e il rumore bianco della modernità con consapevolezza abbagliante, portando a compimento l’ennesima riflessione (forse la più radicale) sulla realtà effimera delle immagini riprodotte. Mai innocuo, sterilizzato o prevedibile, il regista accumula scene madri e cerimonie spettacolari per negare allo spettatore qualsiasi forma di respiro o catarsi, ingarbuglia fino al parossismo i fili di una sceneggiatura estremamente complessa e proietta la tragedia sopra un gioco di apparenze e menzogne, ma si dimostra ancora una volta in grado di restituire l’ambiguità del contemporaneo senza soccomberle.

Per amor vostro5. PER AMOR VOSTRO (Giuseppe M. Gaudino – It/Fr, 2015, 110’)

Anna aiuta gli altri, pensa ai figli, sopporta l’aggressività del marito: potranno un nuovo lavoro (presso lo staff di una fiction televisiva) e un nuovo amore donarle ancora l’incoscienza coraggiosa dell’infanzia? Ambientato in una Napoli onirica e fatiscente, il secondo lungometraggio (in vent’anni) di Giuseppe Gaudino scardina ogni luogo comune sulla mancanza di ambizione del cinema italiano con l’affresco dirompente, visionario e febbricitante di un’anima femminile sospesa tra desideri e paure. Videoarte e neorealismo, sperimentazione pittorica e frustate veriste si fondono in un flusso inestricabile di colori, registri diversi, accelerazioni patetiche e squarci di misticismo, mentre la mdp abbraccia il corpo nervoso della protagonista in una danza feroce. Sacrosanta la Coppa Volpi per la migliore interpretazione conseguita da Valeria Golino al 72° Festival di Venezia.

Francofonia6. FRANCOFONIA (Aleksandr Sokurov – Fr, 2015, 88’)

Durante l’occupazione nazista, il direttore del museo e un militare germanico collaborano per proteggere il patrimonio del Louvre dalla furia iconoclasta del Reich. Uno spunto simbolico (ci sono anche i commenti, via Skype, dell’autore e un egocentrico Napoleone intento a identificarsi con la Gioconda) che serve a Sokurov per parlare di arte, e della capacità del cinema di tradurne significati e spirito libertario, in un mondo dove questa viene inseguita, censurata e fatta a pezzi. I produttori francesi pensavano di finanziare un documentario sulla grandeur museale d’oltralpe, ma si sono trovati di fronte all’ennesima elegia visiva del grande regista russo, a un sommesso apologo sull’occidente minacciato nei suoi valori europei e secolari. Senza traccia di moralismo e senza tentennamenti nel richiedere allo spettatore uno sforzo ermeneutico di questi tempi inaudito, Sokurov usa le immagini per interrogarsi su come sopravvivere al «mare del tempo» e all’incoscienza della politica, riuscendo per l’ennesima volta a visualizzare con amore e dolore il corso frastagliato della Storia.

Taxi Teheran trama7. TAXI TEHERAN (Taxi; Jafar Panahi – Ir, 2015, 82’)

Per aggirare la censura e le restrizioni comminategli dalle autorità nazionali, il regista iraniano Jafar Panahi monta una videocamera sul proprio taxi e viaggia per Teheran caricando passeggeri e conoscenti. Tra verità e finzione, amarezza e ironia, una struggente lettera d’amore al cinema, un piccolo poema (in forma di rosa) sull’espressività delle immagini al di là della raffinatezza della loro confezione. La trasgressione di Panahi, costretto da una sentenza a non girare film, è legale e stilistica, ma priva di concessioni al sentimentalismo o al vittimismo: anzi, è proprio l’inafferrabilità dei suoi personaggi (attori? amici? sconosciuti ignari della messa in scena?) a fare da drammatico contrappunto alla forza delle idee, unica forma di resistenza praticabile contro l’intolleranza e il fanatismo.

L’ALTRA HEIMAT – CRONACA DI UN SOGNO8. L’ALTRA HEIMAT – CRONACA DI UN SOGNO (Die Andere Heimat – Chronik Einer Sehnsucht; Edgar Reitz – De, 2013, 230’)

Metà del diciannovesimo secolo: mentre migliaia di cittadini europei emigrano in Sudamerica, Jakob sogna di andarsene dalle campagne di Hunsrück e contagia chiunque gli stia vicino col proprio entusiasmo e la propria vocazione a condurre un’altra vita. Quarto capitolo del progetto Heimat («patria»), che il regista persegue dal 1984, e punto d’arrivo del cosiddetto nuovo cinema tedesco nato alla fine dei ’60, un film in cui forme classiche e densità romanzesca ridefiniscono i concetti di base del linguaggio cinematografico. Non l’episodio migliore della saga, forse, ma uno dei più dinamici, umani e commoventi, ritratto indimenticabile del cuore violento di una società in cui la speranza di un rinnovamento possibile si fonde, senza veli, senza retorica, senza giri di parole, con l’angoscia, la disillusione e il disfacimento.

Non essere cattivo9. NON ESSERE CATTIVO (Claudio Caligari – It, 2015, 100’)

Ostia, anni ’90. Cesare e Vittorio vivacchiano spacciando, finché il primo, conosciuta una ragazza madre, non cerca di integrarsi e trovare un lavoro. Il secondo sprofonda. Claudio Caligari (tre film in trent’anni, morto lo scorso maggio) dirige con sconsolato furore una parabola di sulla redenzione e sullo sbando ambientata nella periferia romana di vent’anni fa, il momento in cui il mondo dei “borgatari” ritratti anche da Pasolini e Sergio Citti se ne va definitivamente in frantumi. Generazioni spiaccicate sopra un muro di passioni, vuoti esistenziali, tradimenti e infine morte, in una pellicola (portata a compimento grazie alla collaborazione dell’amico Valerio Mastandrea) molto poco italiana e per niente provinciale, dove persino il silenzio risuona di un’eco bella, disperata e selvaggia.

UN PICCIONE SEDUTO SU UN RAMO RIFLETTE SULL’ESISTENZA10. UN PICCIONE SEDUTO SU UN RAMO RIFLETTE SULL’ESISTENZA (En Duva Satt På En Gren Och Funderade På Tillvaron; Roy Andersson – Se/De/Fr/No, 2014, 101’)

Strisce animate, statiche ancorché orchestrate tramite il movimento dei personaggi, di stralunato surrealismo: due commessi viaggiatori («nel settore del divertimento») provano a sbarcare il lunario, Re Carlo di Svezia entra a cavallo in un bar (poi parte per la guerra e torna sconfitto), una locandiera dispensa grappa in cambio di baci etc. Grazie al Leone d’Oro a Venezia, è tornato anche in Italia, a otto anni dalla breve apparizione di You The Living (2007), uno dei maestri del cinema svedese, al solito impegnato a comporre quadri dai colori smorzati dove, dietro l’umorismo e le freddure, si cela un profondo malessere esistenziale. Le immagini sono ferme, ma come sempre in Andersson la coreografia scopica di quanto le riempie vibra di comicità, senso di colpa laico e vulnerabilità umana, in un impagabile valzer tra Stanlio e Ollio e Jacques Tati, Samuel Beckett e Miguel de Cervantes.

Il mio vicino TotoroUn’annata insomma non eccezionale, ma nemmeno malvagia, essendosi tutto sommato potuti vedere (anche se alcuni nella formula odiosa dell’evento reperibile in sala per pochi giorni soltanto) diverse opere dal valore indiscutibile. Tra essi, finalmente, le “prime” sugli schermi italiani di qualche meraviglia del giapponese Studio Ghibli come Il Mio Vicino Totoro (Tonari No Totoro; Hayao Miyazaki, 1988, *****), Nausicaä Della Valle Del Vento (Kaze No Tani No Naushika; Hayao Miyazaki, 1984, ****) e Una Tomba Per Le Lucciole (Hotaru No Haka; Isao Takahata, 1988, ****1/2), oppure il più recente Quando C’era Marnie (Omoide No Mânî; Hiromasa Yonebayashi, 2014, ****) e l’altrettanto ottimo Pioggia Di Ricordi (Omohide Poro Poro; Isao Takahata, 1991, ****), pure lui uscito quest’anno sebbene direttamente in DVD. Conforta, inoltre, l’alta qualità di vari film italiani, di rado, negli ultimi anni, così creativi e riusciti: all’elenco dei prodotti nazionali da recuperare vanno infatti aggiunti anche Bella E Perduta (***1/2), toccante metafora sulla decadenza del paese diretta in toni tra il favolistico e il fantastico dal casertano Pietro Marcello, e Let’s Go (***1/2), bel documentario della napoletana Antonietta De Lillo sulle difficoltà professionali e umane dell’ex-fotografo Luca Musella.

Miss JulieIn rete si possono (e si debbono!) recuperare il cinese The Taking Of Tiger Mountain (Zhì Qu Weihu Shan; Hark Tsui, 2014, ***1/2), ruggente, acrobatico e frastornante come nelle cose più riuscite del regista, e A Syrian Love Story (Sean McAllister, ***1/2), documentario britannico sulle dolorose appendici umane derivanti dalla disgregazione di un paese, amaramente attuale e per certi versi profetico, mentre meritavano un trattamento migliore, anche da parte della critica, il gotico e passionale Crimson Peak (Guillermo Del Toro, ***1/2), il laconico La Legge Del Mercato (La Loi Du Marché; Stéphane Brizé, ***) e l’ambizioso The Walk (Robert Zemeckis, ***1/2); il titolo di lungometraggio più sottovalutato dell’anno va però a Miss Julie (Liv Ullman, 2014, ***1/2), riduzione strindberghiana realizzata con grande compostezza e rabbia femminista da una delle attrici predilette di Ingmar Bergman. Di poco fuori dai primi dieci, La Isla Mínima (2014, ****) di Alberto Rodríguez, recensito la settimana scorsa, e l’esplosivo Mad Max: Fury Road (***1/2), ennesimo western sotto mentite spoglie girato con ineffabile senso dello spettacolo dall’australiano George Miller.

The Assassin(Gli orfani di Star Wars saranno già corsi al cinema, quindi ogni commento sarebbe inutile; Spielberg e Allen, invece, vanno tenuti da parte per festeggiare l’ultimo giorno dell’anno vecchio e il primo di quello nuovo.)

Il distributore dell’anno è, per coraggio e lungimiranza, la torinese Movies Inspired, dalla quale ci aspettiamo nel 2016, come promesso, l’uscita italiana dell’ultimo capolavoro del taiwanese Hsiao-Hsien Hou (The Assassin [Nie Yin Niang, *****]) e l’annunciato The Homesman (2014, ***1/2), bel western crepuscolare di Tommy Lee Jones.