Uscito all’inizio di dicembre, sebbene in pochissime copie, grazie all’intraprendenza del distributore torinese Movies Inspired, La Isla Mínima, film spagnolo insignito in patria di ben dieci Premi Goya (l’equivalente dei nostri David di Donatello), è assieme all’americano The Gift, di cui ci occuperemo in occasione dell’anteprima italiana (prevista per febbraio), il miglior thriller delle ultime due stagioni, da intercettare in sala semmai capitasse dalle vostre parti, da recuperare assolutamente in qualsiasi caso. Diretto dal sivigliano Alberto Rodríguez, alla sua sesta e più riuscita regìa, e girato nelle zone circostanti la foce del fiume Guadalquivir, 30’000 ettari di campi di riso e insediamento palustre (al punto da intitolarsi Marshland, «terra di palude», nei paesi anglofoni) vicino al Parco Nazionale di Doñana, tra Huelva, Cadice e Siviglia, La Isla Mínima mette in scena l’indagine di una coppia di poliziotti, giunta apposta da Madrid in una provincia che richiama (volutamente) le campagne della Louisiana della prima stagione di True Detective o certe pianure del Texas orientale, sulla scomparsa di due ragazze. Malgrado si scontrino con un muro di omertà, scarsa collaborazione e una generale indifferenza subito mutata in irritazione, i due arrivano presto a capire come, dietro le sparizioni, se ne nascondano altre, forse riconducibili alla presenza di uno stesso assassino seriale.
Dal punto di vista della cosiddetta detection, dal punto di vista, cioè, di quel complesso di indizi, prove, ricerche e progressioni verso la verità di cui si compone il meccanismo del giallo, lo svolgimento di La Isla Mínima non procura né scossoni né sorprese. Ma si tratta di un espediente voluto, e difatti l’individuazione del colpevole (imprevedibile per mancanza di segnali pregressi, non certo per la complessità dell’intrigo) avviene, nel finale, in modo brusco e sbrigativo, quasi da un momento all’altro. A pesare, nella pellicola, è invece il contesto storico, l’ambientazione risalente al 1980, nel pieno della cosiddetta «transizione spagnola», il cammino dello stato ispanico verso la democrazia inaugurato dopo la morte, nel 1975, del Generale Franco, e proseguito, in un clima di diffusa e spessa antipatia verso le istituzioni da parte della società, fino alla seconda legislatura del 1982, anno della prima elezione di un governo progressista.
Rodríguez cerca, come regista, l’essenzialità e il rigore, concedendosi solo, di tanto in tanto, qualche spettacolare ripresa aerea volta a restituire la dura piattezza e la solitudine del quadro scenografico, mentre da sceneggiatore riempie il lungometraggio di dettagli relativi all’incertezza politica, al disagio sociale e alle regressioni attraversate dal suo paese nei cupi decenni della dittatura franchista. Già i due agenti di polizia al centro del film sono, in un certo senso, la Spagna tutta, o perlomeno la Spagna di allora, impegnata a mettere tra parentesi le lacerazioni del passato (sovente scegliendo di dimenticarle) e assorbire il cambiamento. Pedro, il più giovane, benché taciturno e severo, onora la propria rettitudine professionale, non trascende se non di fronte alle autorità e, una volta giunto nella pensione dove dovrà alloggiare nel corso delle indagini, rimuove dalla parete il crocifisso decorato dalle effigi di Franco, Mussolini, Hitler e Salazar. Juan, il più maturo, soffre d’insonnia, è soggetto a esplosioni d’ira, beve troppo, piscia sangue e ha un trascorso da torturatore e aguzzino nella Brigada Politico-Social, uno dei due corpi di polizia delegati da Francisco Franco a risolvere le controversie, ideologiche o di cronaca, attraverso sevizie, pestaggi e paura. Pedro e Juan sono la Spagna nuova del 1980, pronta a guardare avanti forse, ma con diversi dubbi circa i metodi e le modalità, e al tempo stesso ancora rattrappita intorno al suo cuore di tenebra, in parte incapace di assimilarlo e superarlo, in parte intrappolata nelle viscere di una vita civile dove continuano a proliferare silenzio e ostilità. Intorno a loro, una provincia disorientata e confusa, per la prima volta a confronto con scioperi e rivendicazioni salariali, eppure, al suo interno, ancora immatura, omertosa, soffocata dalla corruzione delle forze dell’ordine e da un pensiero arcaico per il quale le donne, tutte marchiate dalla colpa di voler fuggire, sognare, immaginare una vita e un posto diversi, rappresentano una forma di mercanzia e nient’altro.
In un clima di ambiguità e staticità che cita il Memories Of Murder (Salinui Chueok, 2003) di Bong Joon-ho (anche quello un grande saggio, mascherato da poliziesco, su una Corea del Sud stremata da anni di autocrazie militari), l’inutilità degli interrogatori, la reticenza dei paesani, le false piste, l’ulteriore confondersi dell’investigazione e l’irrigidirsi delle sequenze nelle inquadrature sempre più secche, corte e nervose di un paesaggio delimitato da polverosi sterrati e corsi d’acqua nera e torbida, fino alla soluzione finale (come detto repentina e inaspettata), riflettono la coscienza sporca, strangolata dalla colpa e divorata dal dolore, di una nazione dove tutti, come la custode del casolare in cui Juan e Pedro cominciano a intravedere movimenti sospetti, non possono fare altro che ripetere (e ripetersi) Yo no sabía, «io non sapevo». Ci sono registi per cui sapere, ricordare e comprendere restano processi fondamentali nella costruzione dei propri film: Alberto Rodríguez – La Isla Mínima lo dimostra con indiscutibile efficacia – è tra questi.
Gianfranco Callieri
LA ISLA MÍNIMA
Alberto Rodríguez
Es – 2014 – 105’
voto: ****