Un tempo rarefatto ma concreto. Conversazione con Annamaria Ajmone

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Tiny - foto di Paolo Porto
Tiny - foto di Paolo Porto
Tiny – foto di Paolo Porto

 

Cominciamo dal fondo: qualche settimana fa hai debuttato con Tiny. Puoi descriverlo?

Tiny, che in inglese significa minuscolo, è un viaggio a ritroso verso ciò che è più nascosto, impercettibile  e profondo in noi;  memorie, forze invisibili, immagini, suoni. Immergendomi, seleziono tracce con cui costruire uno spazio privato da vivere, in un tempo rarefatto ma concreto che si può solo esperire.

Come hai costruito questo assolo?

L’idea è nata lavorando con la videomaker Maria Giovanna Cicciari. Insieme, qualche tempo fa, abbiamo dato vita ad un progetto di ricerca tra danza e immagine in movimento intitolato AnnaMariaGiovanna. Il lavoro si sviluppava in maniera totalmente libera, alternando sessioni al chiuso con altre all’aperto, in cui io improvvisavo e Giovanna mi filmava con la camera a mano. I continui passaggi dall’ambiente interno a quello esterno mi hanno dato la possibilità di indagare sia a livello temporale che spaziale i rapporti tra mondo interiore ed esteriore, e le trasformazioni che essi subiscono. Attraverso queste pratiche ho individuato alcune tematiche che desideravo approfondire. In primo luogo una maniera diversa di percepire il tempo: un tempo personale, privato che modifica il mio modo di occupare e costruire lo spazio. In Tiny il corpo viene attraversato come fosse un archivio di memorie culturali e personali. Questa immersione in zone appartenenti a me, ma allo stesso tempo sconosciute, è stato centrale nel processo di ricerca. Durante tutto il percorso creativo, Giovanna mi ha seguito e ripreso. Fin dal principio si è aggiunto il suono curato da Marcello Gori, in un secondo momento la costruzione di un disegno luci con Giulia Pastore.

Nel giro di quattro giorni, Tiny è stato ospitato a Romaeuropa Festival, al Danae Festival di Milano e ad Autunno Danza a Cagliari. Cosa piace, del tuo lavoro?

Non lo so, forse un’energia coinvolgente e generosa.

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BoleroEffect - foto di Ilaria Scarpa
BoleroEffect – foto di Ilaria Scarpa

 

Duetti con Cristina Rizzo in BoleroEffect. Quali difficoltà presenta, questo spettacolo?

BoleroEffect è complesso e stupendo. Ha diversi strati di lettura, con la capacità di arrivare a tutti nonostante incarni una ricerca sottile e difficile. È inafferrabile. In questa fragilità sta il continuo autogenerarsi energetico di Bolero. Io e Cristina coabitiamo uno spazio e un tempo, siamo una accanto all’altra, simili ma diverse, ci seguiamo attraverso una visione periferica, ci lasciamo muovere una dall’altra, siamo un’unità composta da due singoli individui. È una condizione, quella che viviamo in scena, che deve sempre autoalimentarsi. Con noi c’è Palm Wine che suona dal vivo, segna lo spazio e il tempo. BoleroEffect si costruisce attraverso il coinvolgimento energetico dei quattro elementi da cui è composto: Cristina, Simone, Giulia (Pastore, al disegno luci) e io. A volte sul finale di Bolero mi viene da piangere, mi sento infinitamente felice, una sensazione di espansione totale, noi lo chiamiamo “Effetto Bolero”, anche se non abbiamo ancora ben capito in cosa consista.

Quali sorprese ha portato con sé, fino ad ora?

Tante. Ci interroghiamo spesso su questo spettacolo, è un continuo gioco di equilibrio, si trovano cose mentre se ne perdono altre, è necessario dar loro la possibilità di “accadere”. Per me, ma credo per tutti noi, è stato un incontro importante, che ha dato vita ad altre collaborazioni. Ad esempio ho chiesto a Giulia Pastore di lavorare in Tiny. Credo che questo incontrarsi sia un valore aggiunto. Non è così scontato.

In che modo hai contribuito alla creazione di BoleroEffect, se ciò è avvenuto?

Questo lavoro è frutto dell’idea sapiente di Cristina e della generosità delle persone che lo fanno vivere ogni volta. Io mi sono affidata: ascolto, osservo e traduco. Metto nel mio corpo e trasformo le indicazioni ricevute, manipolando la materia, in continuo dialogo con ciò che mi viene chiesto. Adoro fare l’interprete, proprio per l’accordo segreto che si instaura con chi ha ideato la coreografia.

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Rock Rose Wow - foto di Andrea Macchia
Rock Rose Wow – foto di Andrea Macchia

 

Danzi anche in Rock Rose WoW e in L.A.N.D. Where is my love di Daniele Ninarello. Quali concrete differenze ci sono tra questi due spettacoli, rispetto al modo in cui abiti la scena?

Sono due lavori molto differenti, nonostante la matrice unica e la poetica comune che è propria di Daniele. Rock Rose Wow è uno spettacolo dai tratti marcati, estroflesso, urlato, sguaiato, strafottente, ma che al contempo nasconde una grande fragilità. Siamo in tre, Daniele, Marta Ciappina e io, costantemente soli: l’altro non si riesce ad avvicinare, se non per prevaricarlo. È complesso nel suo essere costantemente lacerato. L.A.N.D. ha altri colori e atmosfere, comincia quasi in punta di piedi, alle volte penso ad un deserto nel quale i cinque interpreti (io, Marta Capaccioli, Cinzia Sità, Pieradolfo Ciulli e lo stesso Daniele Ninarello) delineano paesaggi personali che in un secondo tempo si mescolano, per poi trasformarsi in un unico condiviso territorio, con le difficoltà che un’azione del genere porta con sé.

Invitata da Virgilio Sieni in occasione di Umano, hai presentato l’azione coreografica Trigger all’interno della Sala del Fiorino di Palazzo Pitti e della Sala Piccola di Cango. In che modo due spazi così connotati hanno condizionato il tuo lavoro?

L’azione che ho presentato a Umano è composta da una serie di partiture fisiche, che io ho poi disposto temporalmente e spazialmente una volta entrata nelle due sale. La partitura musicale è stata scelta a priori, considerando i due spazi ma non finalizzata necessariamente ad una relazione con essi. Ciò che realmente i due luoghi hanno condizionato è la composizione coreografica, che si è sviluppata in dialogo con  le sale. La seconda si è portata dietro l’eco della prima.

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Atlante del gesto. Solo di Annamaria Ajmone (cicli coreografici) – Fondazione Prada – Milano, 2015 – foto di Ela Bialkowska, OKNOstudio – Courtesy Fondazione Prada

 

Che cosa cerchi, nella relazione scenica con il pubblico?

È differente a seconda del lavoro. In progetti come Trigger, Buan (spettacolo realizzato per la Biennale Danza 2015) o Solo (azione realizzata per il cinema della Fondazione Prada all’interno del progetto Atlante del gesto di Virgilio Sieni), caratterizzati dall’estemporanetà e dal prendere vita in luoghi non teatrali, non cerco la relazione scenica con il pubblico, ma al contempo non la nego. In uno spettacolo come Tiny si tratta di tutt’altra dimensione: invito il pubblico ad entrare in un mio luogo, seppur non mi rivolga direttamente a nessuno.

E che cosa cerchi di evitare?

L’invadenza. Mi fa stare male, sia come performer che come spettatrice.

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MICHELE PASCARELLA

Info: annamariaajmone.com