Joy: Una favola a metà

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JOY (5)David O. Russell è un regista a parte. È meno estroverso dei fratelli Coen pur condividendone la predilezione per i personaggi stralunati e surreali, meno fiammeggiante e barocco di Scorsese sebbene ricorra spesso al suo intreccio di canzoni in primo piano e movimenti febbrili della mdp, meno anomalo di Michael Mann o JC Chandor benché, come loro, sia abituato a immortalare il paesaggio interiore dei protagonisti in quello estrinseco delle scenografie. Queste eccezioni rispetto ai suddetti modelli, però, non sono ancora riuscite a confluire in un organismo estetico coerente e riconoscibile, dando altresì origine, fino a oggi, a film di guerra, commedie e thriller tutti in qualche modo piacevoli e accattivanti ma sempre vicini, se non al naufragio negli stereotipi, all’esercizio di stile oscillante senza troppo costrutto tra generi e atmosfere, piccoli espedienti e bagliori di classicità, fisime da cineasta indipendente e momenti di cinema mainstream.

JOYIl nuovo Joy, basato (molto liberamente) sulla storia vera di Joy Mangano, imprenditrice italoamericana nei primi anni ’90 capace di creare dal nulla un vero e proprio impero di televendite (e qui nel ruolo della produttrice esecutiva), non scioglie le antinomie connaturate al linguaggio del regista e, anzi, ne ingarbuglia i fili fino a costituire un esempio di kitsch sfrenato (intenzionale e nondimeno indigesto) dove le immagini perdono qualsiasi valore simbolico per diventare puri segni, o meglio, per dirla alla Michail Bachtin, cronòtopi imperniati su elementi così eterogenei da far pensare che l’uniformità lessicale si configuri, nel disegno del cineasta di New York, come una qualsiasi variabile impazzita.

JOY (3)Joy dovrebbe essere un biopic – la ricostruzione della biografia di un individuo reale – ma il suo svolgimento respinge il realismo per concentrarsi sugli aspetti più fiabeschi, e meno credibili, della vicenda di una ragazza newyorchese con l’idea di una scopa di filacce dall’estremità rimovibile e sciacquabile in lavatrice cui, prima di vedere la propria intuizione generare reddito, tocca passare attraverso peripezie degne di Cenerentola: perdonare la famiglia disfunzionale, rimediare ai disastri affaristici dell’ambiziosa sorellastra, redigere la contabilità dell’officina paterna, convincere uno dei primi canali di vendite televisive a lasciarla pubblicizzare il proprio prodotto, occuparsi di una madre tutto il giorno sintonizzata su indigeribili teleromanzi etc. Russell vuole raccontare una favola: lo si capisce dall’insistenza della voce fuori campo della nonna di Joy, verbosa anche dopo il decesso, e lo sfruttamento allegorico, nonché ispirato al Tim Burton di Edward Mani Di Forbice (Edward Scissorhands, 1990), del tema visivo della neve, prima metafora dello strato d’indulgenza e rassegnazione depositato sulle spalle di Jennifer Lawrence (tra i più grandi equivoci attoriali degli ultimi vent’anni), poi raffigurazione del quasi miracoloso affrancamento dalle sue contratture emotive e comportamentali. La favola, inoltre, tende alla dimensione iniziatica, alla sottolineatura delle discrepanze tra la verità intima della protagonista, sempre contornata dal semicerchio coreutico dei familiari (come se questi impersonassero il contrappunto di una tragedia di Eschilo), e le rappresentazioni fuorvianti e artificiose da costei fronteggiate, su tutte quella proposta dal dirigente televisivo Bradley Cooper, secondo il quale il successo di un’operazione di telemarketing risiede nel carattere hollywoodiano della stessa (difatti lo ascoltiamo paragonarsi ai magnati dell’industria cinematografica delle origini), sconfessato da Joy andando in onda con il trucco e il guardaroba della vita di tutti i giorni.

JOY (1) La sceneggiatura, scritta dal regista e dalla Annie Mumolo delle Amiche Della Sposa (Bridesmaids; Paul Feig, 2011), agglomera un caos ingestibile di lingue e trucchi sintattici, codici e discorsi, voci e grafie ossessivamente proteso verso la comunicazione a tutti i costi. Allusioni, urli, messaggi impliciti oppure esibiti, cifrature nascoste o lezioni ex-cathedra (in genere inerenti la percorribilità del sogno americano) concorrono a delineare un affresco confuso dove le difficoltà, le amarezze e i combattimenti del quotidiano non vengono accarezzati in presa diretta ma restano al livello di teorie, tesi, astrazioni. Tra la Joy umiliata e offesa (dai consanguinei, dalla sfiducia, dal disprezzo, dalla trascuratezza) che osserviamo per quasi due ore e la coraggiosa, generosa e comprensiva timoniera d’industria degli ultimi 10 minuti della pellicola, non c’è un vero cambiamento sensibile: a sostituirlo ci pensa un risibile slittamento concettuale, un’ipotesi scenica e appunto non estetica, non riguardante il “senso” degli eventi.

JOY (4)È probabile che Russell volesse strizzare l’occhio alla sospensione magica e inafferrabile di certi film europei (penso soprattutto al Toto Le Héros [1991] di Jaco Van Dormael), al loro mosaico di particolari in grado di comporre la partitura più adatta a un’epoca in cui i destini degli esseri umani presentano una gamma di sfumature e varianti, o anche di semplici sensazioni, un tempo inconciliabili. Ma non l’hanno aiutato né gli attori (da un Robert De Niro ai minimi storici di espressività, fino a una Virginia Madsen talmente esasperata, nella sua schiavitù catodica, da rasentare la pietrificazione) né la manifesta irrealtà dello spazio filmico, non il registro di costante simulazione (quando Joy entra negli studi della televisione, la morfologia visiva diventa quella ariosa del western; quando scopre la truffa dei brevetti indebitamente sottratti, le inquadrature si fanno corte e serrate come in un film d’azione) o un repertorio iconografico concepito per intero sull’accumulo di luoghi comuni. Certo, il regista cerca di muovere al riso e alla commozione, talvolta riuscendovi, tessendo un elogio della resilienza femminile. Ma tra dipingere un’icona della superiore capacità, da parte delle donne, di superare ostacoli, vincere sfide professionali e raggiungere obiettivi prefissati, e ritrarre una figlia (fin troppo) tollerante intenta a sopportare una manica di dementi, ancora ce ne corre.

Gianfranco Callieri    

JOY

David O. Russell

Usa – 2015 – 124’

voto: **