Addio a Pierre Boulez

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Pierre Boulez - foto di Dennis Polkow

 

Pierre Boulez - foto di Dennis Polkow
Pierre Boulez – foto di Dennis Polkow

 

Maestro Boulez, come vede la musica del nostro tempo?

In uno stato di regressione, pigrizia e mancanza di coraggio. Per paura del presente ci si rifugia in brutte copie del passato, ovvero il cosiddetto post-modernismo, esecrabile. Negli anni ’50, dopo la guerra, quando non c’era più niente da perdere, la guerra aveva già azzerato tutto, si era più intrepidi, non si temevano sperimentazioni radicali. Ora si è ossessionati dalla conservazione. Nelle arti, e nella società in generale, si teme la perdita d’identità: in quella gran miscela che è diventato il mondo si ha come il terrore di annullarsi dentro una massa ibrida e confusa, senza più profili e caratteri. Perciò ci si difende tuffandosi nella propria cultura e nel passato. Col risultato di due tendenze: la mania dell’ autenticità e della filologia, vedi il revival di Bach e del barocco mitizzato come epoca d’oro; e il mito della caricatura, ovvero rifare, naturalmente meno bene, cose immaginate cento anni fa o di più. Accade ovunque, nella musica come in architettura, coi vari orripilanti neoellenismi… Spaventosi come il post- moderno in musica.

Crede nelle contaminazioni con la musica pop?

No! Trovo il pop alienante e opprimente. Apprezzo la vitalità dei suoi interpreti, ma è un’energia che potrebbe essere indirizzata verso obiettivi più interessanti. E’ una musica fatta di cliché che cambiano, come la moda. Mi fa pensare a un certo modo di mettere il berretto: un anno con la visiera davanti, l’ anno dopo di lato, e ora tutti la portano indietro… Il pop è dominato da superficialità e imitazione. L’unico che mi ha interessato è stato Frank Zappa, curioso, avventuroso, radicale. Apparizione eccezionale in quel contesto.

Lei fu un pioniere nel campo dell’informatica musicale. I risultati attuali sono pari alle sue aspettative?

Lo sviluppo è interessante ma ancora molto deve accadere. Se un tempo si temeva che la tecnica soffocasse l’interprete, oggi ci si rende conto che è salvaguardato. L’elettronica non domina: è funzionale. E’ una possibilità fantastica di estensione del mondo strumentale. Non indispensabile: si può benissimo scrivere ancora solo per strumenti. Ma per un universo musicale può fungere da arricchimento formidabile.

Ci sono compositori che dirigono e direttori che si dilettano a comporre. Lei, maestro, è l’unico pienamente direttore e autore: uno dei massimi in entrambe le qualifiche. Caso di doppia identità?

No: una sola identità polarizzata in due direzioni diverse e complementari. Non potrei mai dirigere cose che non m’interessano, scelgo solo titoli da cui ricavare qualcosa. Ma mentre potrei benissimo smettere di dirigere per un anno, non rinuncerei mai a comporre, perché è nella scrittura del nuovo, più che nella reinterpretazione del già noto, che si riflette la parte più autentica e originale di me. Sono arrivato alla direzione tardi, avevo oltre trent’ anni. E ci sono giunto per necessità, per difendere le opere e i classici del XX secolo, che erano eseguiti poco e male. Per esempio si trascuravano Schoenberg, Webern e Berg.

Di Webern, da sempre oggetto della sua ammirazione, ha appena inciso la prima e unica edizione delle opere complete in 6 cd. Lo considera integrato nel grande repertorio?

Tra i grandi autori della prima metà del Novecento è il meno assimilato. Causa il suo genio fulminante, l’estrema brevità e concentrazione dei suoi pezzi. Il pubblico ha bisogno di tempo per stabilirsi in una musica. Webern è come un quadro di Mondrian: quadrato, linea, colore… L’immagine si compie così in fretta che si ha l’impressione di non essere nel quadro, mentre in un tela di Cézanne o di Pollock c’è tanto da guardare. Webern va programmato con attenzione e accostato per contrasto a opere diverse, lunghe e distese.

Conobbe Stravinskij nel ’57, quando aveva 75 anni: proprio come lei oggi, maestro. Cosa le suscita l’accostamento?

L’idea che il tempo è passato, tanto tempo. E non solo. Quando incontrai Stravinskij avevo 32 anni ma non sentivo il minimo divario, niente distanze di energie o interessi. Lui aveva la vivacità di un ragazzo, comunicare era talmente facile. Anch’io lavoro sempre a contatto con musicisti giovani. Eppure non me ne accorgo, non sento fratture né ostacoli nel dialogo. E quest’affinità che mi onora.

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 LEONETTA BENTIVOGLIO

(da http://www.artcurel.it/)