Carlo Muratori, maneggiare con cura contiene sale e sapienza di Sicilia

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Intervista esclusiva con il grande cantautore siciliano – naturalmente si parla di Sale, il suo splendido nuovissimo album (Squilibri/www.carlomuratori.it), della Sicilia, dell’ospite d’onore Franco Battiato, di storia, di politica, di EXPO e addirittura di un concerto da tenersi in una salina a 200mt sotto il livello del mare. Noi, fra canti e incanti, abbiamo raccolto quello che l’artista ha da dire.

Sale è un disco allegoricamente molto politico, specie per come usi astratte figure religiose attraverso immagini concrete non basate sul piano emotivo, semmai che richiedono un’interpretazione razionale di ciò che sottintendono, come del resto accaduto già in parte della musica che hai fatto in passato. Già questo è un merito che non si riscontra molto nella musica italiana attuale…

«La presenza della Chiesa e della religione cattolica nel formarsi della coscienza e del sentimento italico, soprattutto nelle regioni del sud, è stato decisivo e spesso totalizzante. Una sorta di ipocrita buonismo e di conformismo dogmatico hanno determinato nei secoli un totale asservimento alle gerarchie curiali e ai loro dettami, interferendo direttamente sui sistemi politici di governo e di opposizione e creando di fatto una classe politica fra le più corrotte d’ogni tempo. Ancora oggi, a ben guardare, permangono evidenti le tracce di un condizionamento delle scelte e del pensiero laico della gente. Il vero potere esercitato al sud risiede nelle canoniche più che nei municipi, nei confessionali più che nei consigli comunali. In Gloria a mia, per esempio, ho voluto cantare il desiderio di liberazione da questa monarchia velata ma potente, nascosta ma terribilmente paralizzante. Dobbiamo impegnarci per un nuovo umanesimo. Rimettere al centro la persona umana, senza intercessioni e/o manipolazioni, mi sembra assolutamente improrogabile per il sud, per la mia gente, per la mia Isola»

Fra le cose che trovo interessanti del tuo modo di scrivere vi è che, pur dicendo cose spesso molto dure o comunque eloquenti, non mi è mai parso che tu sia un artista con tendenze “vetero”. Cosa ne pensi?

«La mia età, la mia carriera, la mia esperienza mi collocano inevitabilmente su un versante “vetero”. E allo stesso tempo rifuggo da un “giovanilismo” ebete e privo di senso. Largo ai giovani tanto quanto largo agli anziani, largo alle donne tanto quanto largo ai gay e agli immigrati. Largo alle idee e alla bellezza, soprattutto, all’impegno e al merito, da qualsiasi parte esso provenga. Dico le cose nel modo più vero che la mia coscienza mi suggerisce. Non cerco clienti, ammiratori, acquirenti – nel mio microcosmo sono impegnato a cambiare il mio mondo, sono in guerra con lo stato, con la chiesa, con una politica ingiusta e assassina, cerco soldati, combattenti da arruolare in un disarmato esercito di liberazione»

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In E sugnu ‘talianu mi pare di cogliere una certa conformità con Io non mi sento Italiano di Giorgio Gaber. Sono fuori strada?

«Nella canzone di Gaber vi è l’amara riflessione di un intellettuale del nord che manifesta il suo disappunto e la sua critica di uomo di sinistra, a questa nazione bislacca che discende dalle camice nere del fascismo. Gaber vive una crisi di appartenenza a uno Stato che vorrebbe migliore. E, salvando dal giudizio critico una serie di eroi epici, fra cui Garibaldi, conclude con un per fortuna che sono Italiano. Il canto siciliano che ho rimusicato risale al 1862, subito dopo lo sbarco dei Mille. Ci è stato tramandato da un incolto bracciante agricolo e parte da una considerazione molto diversa. Ricorda come egli sia appartenuto alla nazione siciliana da sempre, tale è infatti per confini geografici, linguistici, storici la terra di Sicilia. E nota come in un batter baleno e a sua insaputa sia andato a dormire da siciliano e si sia svegliato ‘Talianu. Aggiunge poi sarcasticamente come questo cambiamento, che avrebbe dovuto migliorare le sue condizioni, in effetti lo sta portando inevitabilmente alla miseria e alla morte, circondato e governato com’è da personaggi nuovi che non sanno più cos’è il rossore e l’onore, la fede e la lealtà. Non è la critica al governo nazionale quanto il disconoscimento totale della sua autoritas e della sua legittimazione. E Garibaldi non è nel pantheon dei suoi eroi»

A prologo di Chi dici Nicò, hai messo a prologo Solo poche parole, famoso recitativo dell’attore Ivo Garrani tratto da Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato, film di Florestano Vancini del 1972. L’idea ti è venuta dopo aver scritto quel brano o, al contrario, aver visto il film ti ha ispirato il pezzo?

«Ho visto quel film più volte, emozionandomi sempre. I fatti di Bronte sono il primo esempio storicamente documentato del fallimento dell’impresa garibaldina e del prezzo che le popolazioni meridionali hanno da subito dovuto pagare sull’altare di un’annessione che a scuola ci hanno imposto di chiamare Unità. Il mio brano consiste proprio in un dialogo drammaticamente esistito e reale con Nicolò Lombardo, ucciso ingiustamente da Nino Bixio, «Chi dici Nicò, Chi pensi Nicò», sono tutte domande retoriche rivolte al personaggio di quel film»

I tuoi dischi hanno sempre uno stile concept di fondo, che tradisce il tuo essere stato giovane negli anni Settanta. Quando quest’approccio è voluto e quanto incosciente?

«Mi piace pensare l’opera discografica come un’insieme di più episodi di composizione, diversi ma concorrenti a formare un’unicità estetica e formale. Un po’ come avveniva con le suite, con i quattro tempi delle sinfonie o con i brani di un LP di quando ero giovane io. In genere non penso a una canzone scollegata da un prima e da un dopo – ma come capitolo narrativo di un racconto più ampio. Capisco quanto sia anacronistico tutto ciò nell’era del download del singolo MP3 – ma progettare l’opera mi diverte e mi stimola molto di più che assecondare una semplice ispirazione momentanea e circoscritta. Questo mi da modo, fra l’altro, di affiancare al mio lavoro di compositore e di cantante quello di scrittore e di narratore. Il mio editore non è un discografico puro ma stampa libri – e l’oggetto disco è un CD-book dove puoi leggere una storia, oltre che ascoltare delle canzoni. Diciamo che col CD-book stiamo cercando di progettare l’erede digitale dell’LP»

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L’album è prodotto da Stefano Melone, già accanto ad artisti come Ivano Fossati e Fabrizio De André – e che già ebbe modo di collaborare con te in parte de La padrona del giardino. Com’è andata l’esperienza, peraltro rara per te, di essere prodotto da qualcun altro?

«L’idea che avevo di questo lavoro, come suono e tessuto armonico, doveva essere di natura sinfonica – nel senso che avrei voluto dare molto spazio alla presenza degli archi, oltre che dei fiati e dei plettri. Tutti i mie album precedenti sono stati abbastanza minimalisti, basati solo su voce e chitarra con qualche basso e percussione. Stavolta la struttura stessa del racconto e la qualità dei pezzi mi imponeva un controllo più complesso della materia musicale. E poi volevo dedicarmi di più alla mia voce, alla interpretazione dei testi, scaricandomi di tutto il controllo e l’arrangiamento. Cercavo in effetti una regia per mettere in scena quel copione. Stefano l’avevo conosciuto con Il tamburo, che è un pezzo de La padrona del giardino. Avevo ammirato la sua sensibilità, il rispetto per l’autore e la partitura – ma anche la straordinaria bravura nella scrittura per quartetto d’archi. Abbiamo lavorato quasi un anno in remote, solo su dei provini con le mie chitarre e la mia voce che registravo io. Quando abbiamo deciso di passare alla fase di realizzazione è sceso in Sicilia, nel mio studio fra gli aranci, e qui abbiamo registrato con tutti i collaboratori»

In Sale vi è presente una cover di Franco Battiato, Povera patria, con ospite lo stesso Battiato e che tu hai liberamente tradotto in siciliano. Com’è nata l’idea di rifare quel brano e cosa ti ha fatto pensare che potesse star bene nell’idea del disco che stavi mettendo insieme?

«Sono un fan di Franco di vecchia data, oltre che conoscente e amico. Conservo Fisiognomica come una reliquia, c’è sopra il suo autografo che mi fece sul terrazzo della sua vecchia casa di Riposto in provincia di Catania, dove viveva in quegli anni. In quelle tracce vi è un’ispirazione pura, una limpidezza cristallina che rasenta la mistica. Un’opera fondamentale della sua produzione. Detto ciò, in occasione del 150° dell’Unità nazionale, nel 2011, misi in scena un mio spettacolo musicale che raccontava, secondo i documenti della tradizione popolare siciliana, il Risorgimento, dalla dominazione borbonica, allo sbarco, ai fatti di Bronte, fino all’emigrazione e alla strage di Capaci. Ricordavo che in nostri incontri passati Franco mi raccontava come il suo Povera patria, anche se probabilmente scritto qualche anno prima, in effetti per lui fosse moralmente dedicato alla morte di Falcone e Borsellino. Allora decisi di chiudere quello spettacolo con il suo pezzo, ma fatto in siciliano e intitolando il concerto appunto Povira patria. Sale contiene una serie di passaggi da quello spettacolo e mi è sembrato consequenziale inserire pure quel pezzo. Gli ho chiesto l’approvazione sulla traduzione e non solo è stato assolutamente d’accordo ma si è reso disponibile per un duetto che abbiamo registrato nel suo studio di Milo. Condividere con lui il microfono è stata una delle emozioni più grandi della mia vita»

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Quando ti intervistavo negli anni Novanta, ti chiedevo di nuove leve siciliane dell’epoca come i Flor De Mal di Marcello Cunsolo e di Carmen Consoli – oggi si parla ancora di musica siciliana, vedi anche candidature e vittorie al Premio Tenco, grazie ad artisti come Cesare Basile e Salvo Ruolo. Hai avuto modo di ascoltarli e di valutarli? Cosa ne pensi del loro lavoro e quanto lo trovi affine al tuo?

«Conosco molto bene Cesare, non allo stesso modo Salvo, ma di cui mi parlano molto bene e presto vorrò ascoltare le sue cose. Cesare è un musicista di talento e dotato di una grande curiosità e originalità, che lo ha portato negli anni a frequentare magistralmente la scena rock blues siciliana e nazionale. Da qualche anno, attratto da una irresistibile “sicilianità”, sta ospitando nei sui progetti, con dei risultati secondo me straordinari, una componente etno-folk sia nell’uso del linguaggio sia della strumentazione, dell’ambientazione e dell’interpretazione. Un’altra enorme risorsa per la nostra terra. Spero presto di fare qualcosa insieme a lui»

Se non ricordo male, tu andasti a fare dei seminari musicali in Brasile – e peraltro nei tuoi lavori ho sempre colto più di un riferimento a gente come Gilberto Gil, Caetano Veloso e Chico Buarque. Cosa ti attira di quella cultura musicale?

«La poetica musicale, la qualità erotica dei sussurri, l’eleganza delle armonie, le chitarre – cosa devo aggiungere?»

Senza addentrarsi nei tanti problemi che affliggono la tua terra o, peggio, nella politica che la governa, se mandassi una cartolina dalla Sicilia quali speranze e quali idee vorresti scrivervi sopra?

«Scriverei dall’Inferno di una terra che ha conosciuto paradisi atavici e remoti, così lussureggianti da suscitare l’invidia di un demone che ora ci tiene sotto il suo dominio, almeno fino a quando non ci saremo meritati l’agognata libertà»

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So che fai un corso di musica popolare al caffe letterario Le Fate di Ragusa – di cosa si tratta esattamente?

«Una delle conseguenze più disastrose del boom anni Sessanta è stata la lenta ma inesorabile rimozione della memoria contadina da parte delle classi popolari italiane – così come profeticamente aveva annunciato Pier Paolo Pasolini. In Sicilia si è assistito dapprima a un imbarazzo legato all’uso del linguaggio e delle tradizioni popolari, che presto si è tramutato in vergogna, fastidio fino a generare una amnesia collettiva. In circa cinquant’anni della nostra storia recente sono finiti nell’oblio centinaia di canti dell’aia, dei carrettieri, filastrocche, ninne nanne, passi di danza, modi di dire, proverbi. Una cultura millenaria, basata sui propri racconti, sui canti e sulle musiche si è sgretolata e perduta per sempre. Io cerco, con i miei laboratori, di riannodare questo fili tranciati dall’incuria e dalla miopia – faccio conoscere i libri dove questa cultura è trascritta, faccio cantare i brani e insegno a scrivere correttamente la lingua siciliana»

L’ultima volta che sei salito al nord per fare concerti risale all’estate scorsa all’EXPO di MIlano – com’è andata quell’esperienza? E per il 2016 possiamo sperare di vederti in concerto non solo in Sicilia?

«Sull’EXPO vorrei stendere un velo pietoso. Ammesso che sia stato un grande evento nazionale, se i dati entusiastici governativi risultassero veri e affidabili, certamente non è stato così per il cluster bio mediterraneo dove era ospitata pure la Sicilia. Soprattutto per la nostra regione è stata un’altra clamorosa occasione mancata. A fronte di un’offerta culturale, turistica, storica, eno-gastronomica che la Sicilia può vantare, fra le più imponenti del pianeta, l’Isola ne è uscita mortificata e umiliata. Guidata dai soliti incapaci, espressione dell’ambiente politico più tronfio e inconcludente di sempre, tutta la vicenda dell’esposizione internazionale si è rivelata da subito un disastro su tutta la linea. E questo giudizio, al limite dell’incazzatura, era condiviso da noi artisti, dagli operatori economici, dai gestori delle attività di ristorazione, dalla gente. Nessun coordinamento, pochissima promozione degli eventi in programma, nessuna competenza. Ma parliamo di musica, che è meglio. L’uscita di questo nuovo progetto discografico metterà in atto incontri, presentazioni, showcase, live in giro per tutta l’Italia e anche all’estero, già a partire da febbraio. Per il momento mi sto muovendo tanto in Sicilia, dove il 6 di gennaio ho tenuto l’anteprima nazionale del live tour al Teatro Barocco di Noto. Uno dei momenti più significativi lo stiamo pensando per febbraio/marzo, cercando di organizzare un concerto evento a 200 metri di profondità, nella più grande miniera di sale del sud europa, la miniera di salgemma di Realmonte in provincia di Agrigento. In questo luogo extra terrestre abbiamo registrato il video dei D’amor e di pazienza che presto sarà visibile su YouTube. Abbiamo stabilito un ottimo rapporto con i gestori della miniera, cosa che ci ha consentito di poter inserire nel CD-book una bustina di sale prodotta da loro con la scritta “Attenzione: maneggiare con cura contiene sale e sapienza di Sicilia”. Piccole cose, ma di enorme valore simbolico e morale»

CICO CASARTELLI

CARLO MURATORI – Sale (Squilibri/www.carlomuratori.it)