Brooklyn: C’era una volta in America

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Brooklyn (5)Raccontare lo sradicamento delle prime generazioni di migranti trapiantati in America, al cinema, non è mai stato facile. Ci hanno provato, in tempi recenti, sia l’irlandese Jim Sheridan, adottando il registro a lui poco consono della fiaba, nel non disprezzabile In America – Il Sogno Che Non C’era (2002), sia l’ebreo (di origine ucraina) James Gray, con le sue donne polacche all’ingresso di un mondo nuovo nell’irrisolto C’era Una Volta A New York (The Immigrant, 2013), ma entrambi, pur asciutti e privi di retorica, sono sembrati alle prese con un compito troppo ambizioso. Va dato quindi atto al romanziere Nick Hornby, qui presente in veste di sceneggiatore, di aver riservato al libro omonimo (risalente al 2009) di Colm Tóibín, da cui Brooklyn è tratto, alla prosa misurata, composta e solenne dell’autore di Enniscorthy, il migliore degli adattamenti possibili, in grado, cioè, di abbracciarne il registro calmo senza rinnegarne la serietà e l’ampio respiro di fondo.

Brooklyn (3)Nel passaggio dalla parola scritta al movimento dei fotogrammi, però, sarebbe forse stato più opportuno poter ricorrere a un cineasta con maggiore personalità rispetto a quella dimostrata da John Crowley, molto apprezzato a teatro sebbene piuttosto didascalico dietro alla macchina da presa: è infatti la scarsa densità, se non la rarefazione, del suo linguaggio, il calligrafismo delle sue composizioni visive, a rendere il film estremamente convenzionale come storia d’amore, e altrettanto paludato in quanto alla descrizione di un’appartenenza familiare ai propri luoghi e alle proprie radici così pronunciata da sconfinare nella negazione di sé. In conseguenza di questo anonimato dello stile, la pellicola finisce per reggersi quasi per intero sulle spalle capaci di Saoirse Ronan, attrice irlandese del Bronx ancora molto giovane (è nata nel 1994) eppure efficientissima nel dare corpo, pallore, esitazioni, nostalgia e pudicizia alla protagonista Eilis, arrivata nella Brooklyn degli anni ’50 dal suo piccolo villaggio nella contea di Wexford per trovare un lavoro, un amore e magari un’identità.

Brooklyn (4)Proprio la ricerca faticosa di una personalità non mediata da troppe incertezze (nel romanzo Eilis viene definita «così passiva che avresti avuto voglia di darle una bella scossa») né condizionata dalle aspettative altrui (quando viene a sapere della morte della sorella e fa ritorno in Irlanda per recare conforto alla madre, Eilis, nonostante le prospettive d’impiego e il fidanzato americano, medita di allontanarsi da Brooklyn per sempre) è al centro del copione di Hornby, benché con toni molto più scherzosi rispetto alla gravitas di Tóibín, e della recitazione della protagonista, che in ciascuna immagine, persino nella più lacrimevole, vibra di sincerità, decoro, assenza di retorica e riserbo, regalando agli spettatori una prova tanto frugale quanto luminosa.

Brooklyn (1)Se Hornby, con i suoi alleggerimenti comici, e la Ronan, con un’interpretazione magistrale, contribuiscono a fare di Eilis, come già in Tóibín, l’icona di una scelta esistenziale, la reificazione assoluta di uno spirito inquieto, lacerato tra adesione sentimentale al passato e istintiva fiducia nelle potenzialità del presente, la regìa di Crowley appiattisce ogni ambiguità nelle modulazioni scialbe di uno sceneggiato televisivo sorpassato per concezione e anacronistico nella forma, privilegiando l’attendibilità scolastica della ricostruzione d’ambiente e la risoluzione di qualsiasi dubbio alla ricerca di un’illustrazione appena meno banale della vicenda. Una volta, davanti a film simili, non sapendo cos’altro sottolineare, si sarebbero lodati gli attori, le luci e le scenografie. I primi sono uno dei pochi motivi per vedere Brooklyn fino in fondo, mentre per le seconde e le terze, come sempre, non serve neanche un regista: basta e avanza un arredatore.

Gianfranco Callieri   

BROOKLYN

John Crowley

Irl/Uk/Cdn – 2015 – 112’

voto: **1/2