Ramin Bahrami, Danilo Rea e l’anima jazz di Johann Sebastian Bach

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Ramin Bahrami e Danilo Rea
Ramin Bahrami e Danilo Rea
Ramin Bahrami e Danilo Rea

 

La prima cosa che colpisce è il pubblico, nell’affollatissimo foyer del Teatro Diego Fabbri di Forlì.

Allievi del Liceo Musicale, loro famiglie, probabilmente alcuni abbonati della Stagione di Prosa. Non ci sono gli spettatori del Contemporaneo, né i relativi critici: assenze che sono espressione della muta ma inflessibile separazione vigente negli universi dello spettacolo dal vivo. Il plurale non è casuale: chi frequenta, anche saltuariamente, i teatri conosce bene le enormi differenze esistenti tra i pubblici. Volendone ricordare almeno due: quello “degli abbonati”, appunto, della prosa, della lirica, della musica o del balletto. Solitamente persone di mezza o tarda età, di buon livello economico e culturale, spesso legate a una concezione tardo-ottocentesca di arte (idea di bello come abile imitazione della natura, espressione di sentimenti, manifestazione di téchne). E quello “della ricerca” (nei vari ambiti: musica, teatro, cinema, danza, arti visive). Di solito un pubblico giovane (o giovanile), con minore disponibilità economica (per usare un eufemismo) e una discreta cultura off, politicamente orientati a sinistra (con le mille varianti del caso) e un’attitudine ad accogliere il non (de)finito. I diversi pubblici di fatto non si incontrano, non si conoscono, non si siedono accanto, nel buio della platea. Mai. Si sta ben divisi, ognuno nei propri spazi e momenti, avendo cura di non mescolarsi, di non confondersi. Il che è piuttosto paradossale, data la comune frequentazione di manifestazioni dell’umano che dovrebbero attenere alla conoscenza, e dunque all’apertura. Ma tant’è.

Dovesse interessare, per inciso: di tali questioni si è intensamente occupata, negli ultimi quarant’anni, la sociologia del gusto, a partire dal fondativo saggio La distinzione. Critica sociale del gusto, di Pierre Bourdieu. La tesi (post-marxista e post-strutturalista, come si può facilmente intuire) del sociologo e filosofo francese è (detta schematicamente): le pratiche di apprezzamento e di consumo culturale sono determinate da network sociali pre-esistenti. Gli studi successivi arrivano a valutare vero anche l’esatto contrario (e la composizione della platea del Diego Fabbri pare esserne una riprova): sono i diversi stili di consumo e apprezzamento culturale a generare le reti sociali. Cioè: abitiamo una società in cui il gusto si converte all’istante in forme di relazione tra individui, e il consumo culturale offre una base per interagire tra soggetti con interessi simili. Il gusto diventa un modo per costruire reti, insomma. Fine dell’inciso.

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Ramin Bahrami e Danilo Rea
Ramin Bahrami e Danilo Rea

 

È questa comunità istantanea ad accogliere con grande calore Ramin Bahrami e Danilo Rea, due pianisti d’eccezione che sul palco forlivese giocano d’azzardo.

La scommessa dei due artisti non è tanto quella di prendere la Tradizione (con la maiuscola) rappresentata da Bahrami e “sporcarla” con il jazz di Rea.

La loro sublime avventatezza è quella di dedicare la gran parte del concerto alla produzione per tastiera meno conosciuta del compositore tedesco: nulla di immediatamente gratificante, nulla (o quasi) che possa con facilità essere riconosciuto e dunque far giocare il pubblico con i musicisti in scena.

Laddove fosse stato scelto e “arrangiato in chiave jazz” un programma noto (nel repertorio di Bach non c’è che l’imbarazzo della scelta), gli ascoltatori e le ascoltatrici pensando agli eventi musicali che stavano avvenendo avrebbero potuto, più o meno consciamente, formulare ipotesi relativamente a ciò che stava per accadere, con aspettative a volte confermate e a volte no. Detto altrimenti: il compito dello spettatore sarebbe stato quello di trovare e riconoscere le melodie principali costituenti la struttura musicale, mentre quello degli esecutori-autori sarebbe stato quello di nasconderle, alterarle, smembrarle, offrendo alla platea rebus sonori da risolvere. E il gusto di ritrovare, in mezzo ai grappoli di note, il già conosciuto.

Con un repertorio così inaudito, a parte rare commoventi eccezioni, questo facile gioco non ha potuto avere luogo, lasciando spazio all’unica possibilità di incontro attorno a ciò che la musica di fatto è, al di là di ogni romantica interpretazione: forma sonora in movimento.

«Attenersi al fatto», direbbe Gilles Deleuze.

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Ramin Bahrami - foto di Ugo Dalla Porta
Ramin Bahrami – foto di Ugo Dalla Porta

 

Ramin Bahrami e Danilo Rea sono troppo colti e intelligenti per cedere anche a un altro troppo facile gioco “acchiappa pubblico”: la banale iconoclastia. Prendere un Mito (con la maiuscola) e abbassarlo, sporcarlo, “modernizzarlo” (virgolette non casuali).

Nella lettura propriamente jazz che i due artisti danno di questo programma c’è un profondo rispetto, finanche filologico, del compositore tedesco.

Un esempio su tutti.

Con il suo aderire alla prassi del basso cifrato (o figurato), Bach non determina pienamente ciò che l’interprete è tenuto a fare: l’esecutore, già nelle intenzioni del compositore, ha una grande libertà di manovra. In questo senso è forse corretto dire che le istruzioni registrate nei numeri del basso figurato includono tutta la libertà non soltanto permessa ma, in senso proprio, comandata: ai tempi di Bach, come è noto, la mano destra era realizzata sul momento. Improvvisata, diremmo oggi: parte dell’apprendistato consisteva nell’acquisire questa capacità. Oggi molti pianisti non possiedono questa capacità. Bahrami e Rea, con tutta evidenza, sì.

Detto in altri termini: la maestria di questi due artisti sta nel dare corpo sonoro a due anime, apparentemente inconciliabili ma in realtà profondamente organiche, di Johann Sebastian Bach. L’assoluta (post) modernità di un autore che in vita (1685-1750) era considerato dai coevi vecchio, superato: il suo stile contrappuntistico segno di un eccesso di arte che generava l’artificio contrario alla natura e alla ragione, la sua concezione pitagorico-teologica della musica opposta al gusto del momento, in cui dominava incontrastata la semplicità galante, il facile sentimentalismo in accordo con la ragione, alla ricerca di una melodia armonizzata senza troppe complicazioni.

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Johann Sebastian Bach
Johann Sebastian Bach

 

Evviva dunque, in un’epoca non troppo dissimile da quella, la rigorosa libertà, propriamente bachiana, della «cattedrale di suoni nella quale introdurre nuovi visitatori» edificata da Ramin Bahrami e Danilo Rea di fronte alle nostre orecchie.

A Forlì, ospiti dell’Associazione Amici dell’Arte.

Per concludere e rilanciare, con Gustav Mahler: «La tradizione è custodia del fuoco e non culto delle ceneri».

Chapeau.

MICHELE PASCARELLA

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Visto al Teatro Diego Fabbri di Forlì il 9 marzo 2016 – info: amicidellarte.info, teatrodiegofabbri.it

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