I giochi d’ombre di Gordon Lightfoot

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L’uomo è anziano ma non vecchio – come potrebbe esserlo Gordon Lightfoot, pensando alla storia che si porta appresso, quella di sul serio uno dei massimi cantautori degli ultimi cinquant’anni? Storia che è vera Torre della Canzone, come direbbe il suo antico amico e connazionale canadese Leonard Cohen. Anzi, vederlo così in buona forma fisica sebbene trasmetta una certa sensazione di gracilità, dopo tanti anni dediti alla bottiglia e dopo i pesanti guai di salute che ha passato, fa solo piacere. Quando si parla di personaggi che (ancora) non si spezzano, nonostante tutto e nonostante i quasi ottant’anni – giusto un po’ come d’autunno sugli alberi le foglie, direbbe l’amato Giuseppe Ungaretti.

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La voce è vissuta, stenta anche a carburare per il primo quarto d’ora, è compassata ed eterea, fragile ma quando ingrana non è usurata – in sostanza, come è sempre stata quella di Gordon Lightfoot nel corso delle stagioni, che sarà anche, come volle farlo conoscere al mondo il suo antico manager Albert Grossman, quella «del secondo più interpretato cantautore nordamericano» (il primo, naturalmente, è il suo amico e primo estimatore Bob Dylan), ma insomma, anche ora ben che è attempato, come le canta lui le sue canzoni nessun altro le canta – nonostante esegeti di calibro pesante che si chiamano Elvis Presley, Judy Collins, Bob Dylan, Johnny Cash, Jerry Lee Lewis, Nico, Fairport Convention, Jerry Reed, Billy Lee Riley, fra le decine.

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La figura che compare sul palco alla Bridgewater Hall di Manchester è esile, capelli leggeri che si appoggiano sulle spalle, le solite Martin sei e dodici corde alternate al collo che hanno fatto epoca e un quintetto che per lo più, nei propri vari elementi, è con lui da molti decenni – tutto al servizio di una classe che non ha rivali: pulita, equilibrata, che se si parlasse in termini di caratteri di stampa sarebbe “bodoniana”. Un po’ come le sue magnifiche canzoni, mai una nota di troppo né un strofa o una parola oltre il dovuto, ma semplice innata perfezione, qualità espressive che hanno in pochi e che in molti farebbero la guerra per poterne avere almeno un briciolo.

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Lui, come sempre impassibile, ricambia con una moneta che è oro fatto di una trentina di pezzi che sono pura, impalpabile estasi del più grande cantautorato nord-americano: Sweet GuinevereDid She Mention My Name?Waiting For YouNever Too CloseDon QuixoteClouds Of LonelinessA Painter Passing ThroughSpanish MossShadowsBeautiful – proprio la sequenza Shadows-Beautiful è parsa quella che più di tutto ha lasciato senza fiato per grado d’intensità – The Watchman’s GoneThe Wreck Of The Edmund FitzgeraldCarefree HighwayPony ManNow And ThenRibbon Of DarknessSundown,14 Karat GoldI’d Rather Press OnMinstrel Of The DawnLet It RideIf You Could Read My MindRestlessBaby Step BackEarly Morning RainRainy Day People e Cold On The Shoulder – numeri che lui, modestamente, ha detto essere «prodotto del folk revival» ma che in verità, al pari di davvero poche altre (Bob Dylan? Kris Kristofferson? Randy Newman? Leonard Cohen? Guy Clark? Merle Haggard? Laura Nyro? Lou Reed? John Prine?), sono frutto di una penna con semplicemente potere d’essere indelebile, indistintamente si tratti di tempo o di memoria.

CICO CASARTELLI

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