Richard Thompson, terreni rocciosi e muri di morte

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L’amore è cieco, è un’altra grammatica – ma amare Richard Thompson non ha contro indicazioni: per lui parla una gigantografia discografica che a partire dei Fairport Convention semplicemente lo ha portato a livelli unici, probabilmente irripetibili per chiunque. Artista che lassù, in Inghilterra, bisogna nominare nello stesso respiro di Ray Davies e di Pete Townshend, per come e per quanto egli abbia descritto, raccontato, a volte sfottuto, sublimato e quant’altro la englishness, l’essere inglese – lui che peraltro vive in California da svariati decenni. E vederlo da solo con la sua chitarra dà il metro della sua grandezza: è uno dei pochi che quando sta su di un palco all alone ti ammalia, che ti fa capire la differenza fra i (rari) campioni e le miriadi di “vicini di casa”.

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La splendida cornice di Palazzo Visconti a Brignano Gera d’Adda nella bassa bergamasca è il luogo perfetto per godersi l’evento – e per l’ennesima volta bisogna riservare un grande grazie a Gigi Bresciani e a Geo Music, caso insolito fra i promoter italiani che oltre al mero profitto vede la musica come cultura, com’è sempre ribadito dalla cura certosina nello scegliere location di pregio per gli artisti portati in concerto. Dare a Cesare quel che è di Cesare, sempre. Il resto è pura magia di un artista di cui hanno fatto una copia sola – insomma, senza eguali.

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Richard arriva sul palco ed è sempre lui: basco sul capo, corporatura muscolosa anche se un po’ appesantito (le primavere sono comunque sessantasette), sguardo beffardo di chi la sa lunga oltre che molto bene – e naturalmente l’acustica al collo, arma che imbracciata da lui è impropria. Di lì partono quasi due ore senza un cedimento, parata della sua tecnica sublime parente stretta di un ventaglio di artisti che solo lui riesce a cucire insieme (Davey Graham, Frank Zappa, Bert Jansch, James Burton, Jerry Reed, Robbie Robertson), del suo modo di cantare letterario che in una sola canzone incorpora personaggi e umori come nemmeno un intero libro, e naturalmente un repertorio multiforme-multicolore che in cinque decenni è diventato una cattedrale – qui il distillato è minimo, giusto una ventina di pezzi, ma è anche di quelli killer.

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Attacca subito con uno fra i brani manifesto del penultimo disco Electric (2013), ossia Stony Ground: terreno roccioso dove Sir Richard è subito a suo agio. The Ghost Of You Walks da You? Me? Us? (1996) è una dimenticata perla che riascoltiamo con piacere per quel suo tocco lieve di racconta storie profonde. Valerie è la solita danza indiavolata: non c’è il rock and roll scatenato della band di Daring Adventures (1986), ma la potenza del pezzo è sempre lì – così come l’assolo di ammaliante, serafica bellezza. Anticipato da un giga irlandese, si passa al canto marinaro Johnny’s Far Away da Sweet Warrior (2007), con tanto di improvvisato quanto zelante direttore del coro fra il pubblico, e a Beatnik Walking sempre da Still: epico canto da pub il primo, in punta di dita e rarefatto di ritmo con il secondo. 1952 Vincent Black Lightning da Rumor & Sigh (1991) commuove sempre: storia di triangolo amoroso e di moto (donne e motori…), che in verità è un’epopea fatta e finita con quel cantato al limite del crollo nervoso e accordi circolari che sono vero turbine. Dry My Tears And Move On dallo spettacolare Mock Tudor (1999) potrebbe essere il soul secondo Richard Thompson – anticipo del primo tuffo nel passato remoto: prima I Want To See The Bright Lights Tonight del primissimo disco con l’ex moglie Linda e, quindi, da non credere, Who Knows Where The Time Goes? dei Fairport, che Richard dedica ai suoi ex compagni «persi lungo il viaggio» Sandy Danny, Martin Lamble e naturalmente il da poco scomparso Dave Swarbrick (5 aprile 1941 – 3 giugno 2016). Commozione papabile.

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Giusto a metà esibizione, tocca a Good Things Happen To Bad People ossia ancora Electric e a Persuasion scritta con Tim Finn (Split Enz e brevemente Crowded House, orgoglio kiwi): ed è una doppietta fatta di contrasti, gran tiro la prima mentre la seconda è pura introspezione con chitarra che tesse la tela del ragno. I Feel So Good da Rumor & Sigh alza la temperatura  – è l’american Thompson, sincopato e travolgente. Quindi, fermi tutti, che transita un (ennesimo) capolavoro: Wall Of Death da Shoot Out The Lights (1982 – chi si ricorda di come i R.E.M. la fecero magnificamente epoca Monster?), è uno di quei brani che possono vantare in pochi per bellezza, poesia e cosmica sofferenza – il brivido di sentirlo per l’ennesima volta è sublime, di quelli che vorresti che la prossima occasione sia presto, prestissimo. Broken Doll da Still, spoglia di certo barocchismo del disco, in questa versione all’osso ne acquista. One Door Opens da The Old Kit Bag (2003) e Walking On A Wire da Lights – la fragilità nervosa dell’immortale originale cantato da Linda lascia spazio al tono saldo che qui ci mette Richard – chiudono in bellezza il set. Gli encores si aprono con l’insindacabile poesia di Dimming Of The Day da Pour Down Like Silver (1975), già nell’originale cristallino gioiello acustico per voce di Linda. Bathsheba Smiles da Mock Tudor, splendida nelle sue note rapsodiche, anticipa una sempre maestosa Shoot Out The Lights, la quale alla fine strappa ovazioni che più sentite non si può. Inchino, saluti – e come recita I Feel So Good«Mi sento così bene che stanotte spaccherò il cuore di qualcuno» – di certo in platea a Palazzo Visconti ne sanno qualcosa. Per il resto applausi a scena aperta al più magnificamente folkie dei Sir: Richard Thompson.

CICO CASARTELLI

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