Jacqui McShee, la sorella crudele

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Chi scrive è pronto a giurarlo e a spergiurarlo – se dovesse scegliere un solo concerto fra quelli che egli ha visto, non vi sarebbe singolo dubbio sulla scelta: i Pentangle in formazione originale con Jacqui McShee, John Renbourn, Bert Jansch, Terry Cox e Danny Thompson nell’estate 2008 alla Royal Festival Hall di Londra. E sempre giurando e spergiurando, costui è pronto ad affermare che tale perfezione in formato band & musica non l’aveva sentita né prima né sentita dopo – perfezione dell’unico gruppo inglese che potrebbe sfidare i Led Zeppelin e che probabilmente potrebbe anche vincere ai punti.

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Adesso, con Bert Jansch e John Renbourn passati a miglior vita, per forza di cose niente più Pentangle – le tre punte rimaste ognuna va per i fatti propri, se non sì è ritira a vita di pensione. Ma a parte questo, è semplicemente Bello-con-la-maiuscola ritrovarsi di nuovo davanti a Jacqui McShee, che imperterrita gira ancora con il suo trio, i Take Three, composto del marito e batterista Gerry Conway (Fotheringay, Cat Stevens, Fairport Convention – chi si ricorda quando prestò servizio a Lucio Battisti?) e del trascinante tastierista-jolly Spencer Cozens (John Martyn, Joan Armatrading). La Signora – per inciso, la più grande voce femminile della musica d’Albione che si sia ascoltata accanto a Shirley Collins, ad Anne Briggs, a Linda Thompson, a Norma Waterson e a Sandy Denny – dicevamo, la Signora è un diamante puro: intensa per grazia divina, anche se certamente quelle doti vocali fuori dell’ordinario le ha sviluppate con studio e abnegazione inusitati. Un talento, Jacqui, che ha potuto ancora una volta un concerto immacolato, quello di un’interprete della tradizione al contempo sublime e avveniristica – come del resto sublime e avveniristico è il repertorio Pentangle, fra i massimi messi insieme sotto il Regno di sua Maestà Regina d’Inghilterra Elisabetta II. Detto ciò, è molto una vergogna che un appuntamento così abbia visto un teatro per 3/4 deserto (fra l’altro, in un auditorium nuovo di pacca come il Teatro Nuovo di Treviglio, dov’è davvero un piacere assistervi performance): dov’erano i media che giurano e spergiurano di appoggiare la vera grande musica? E dov’erano tutti i parolai modello social network che loro sì la musica sanno come si ama e come si rispetta, con tutti i blah blah blah del caso? Ripetiamo, 3/4 di teatro vuoti per Lady McShee, peraltro con prezzo biglietti ultra popolare, significa solo una cosa: vergogna.

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I tre, tuttavia, non si sono scoraggiati – e hanno sfoderato un concerto d’eccellenza, nelle intenzioni dedicato all’ultimo Pentangle scomparso: John Renbourn. Quella del trio è davvero musica cosmica d’Albione, capace di essere sperimentale prendendo dalla tradizione sia essa o jazz o folk o blues – come del resto lo fu quella del Pentangolo. Un repertorio, quello offerto, solido come l’oro, con la Signora che dà lezioni di canto come solo lei sa, vedi nei suoi classici showcase Once I Had A Sweetheart oppure Cruel Sister – che davvero ha strappato applausi sentiti dei pochi ma buoni presenti – oppure I’ve Got A Feeling – eccezionale variazione di All Blues di Miles Davis, con aggiunto testo di Bert Jansch – oppure ancora lo standard country-gospel Will The Circle Be Unbroken che naturalmente hanno evocato l’irraggiungibile grandezza della sua vecchia band. In proposito, l’emozione ha toccato l’apogeo con Lord Franklin, espressamente dedicata a Renbourn («Sapete, questa era la canzone favorita di John – spero di rendergli buon servizio»).

Gerry Conway
Gerry Conway

I grandi artisti si vedono nei particolari e nelle scelte meno scontate, dicono – e se è così, i magnifici Take Three non si sono risparmiati anche nel percorrere sentieri meno ovvi, fra la musica francese di Jardin d’amour (melodia tradizionale con parole del grande chitarrista franco-algerino Pierre Bensusan), quella irlandese di Factory Girl («La ragazza della canzone proprio non la capisco, nacque povera e diceva che volesse rimanere povera») e quella da standing ovation anglo-yankee di The House Of Usher’s Well («Questo tradizionale inglese in origine aveva trenta versi, poi lo portarono in America e fu ridotto a nove»). In poche parole, un concerto i cui bagliori di note, senza batter ciglio, elevano chiunque presti orecchio – anzi, qui si prende semplicemente il volo: non saranno i Pentangle ma questi tre assi sanno come far scattare la magia, conoscono l’arte di incantare con musica impalpabile modellata con assoluta maestria. Archiviare dove la memoria custodisce meglio i ricordi è cosa buona e giusta, in definitiva.

CICO CASARTELLI

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