Sid Griffin – fra rovi, rose e Byrds

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Dopo tanti anni ti ritrovi davanti a Sid Griffin e inevitabilmente rifletti che il Paisley Underground sembra appartenere a un altro evo: lui che con Steve Wynn, Dan Stuart e Dave Roback ne fu moschettiere con virtù infinite a capo dei suoi Long Ryders, adesso è un attempato sessantenne residente a Londra che si è lasciato ben alle spalle sia il natio Kentucky sia la California – ma che altrettanto resta iper attivo in quanto a produzione discografica e alla sua mai sopita vena di musicologo/giornalista.

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Dopo l’ottimo e intenso set di Edward Abbiati – che con i Lowlands è in procinto di pubblicare un disco tributo a Townes Van Zandt – l’artista prende posizione sul palco: aria tra il goffo e quello che ne ha viste tante, bretelle e scarponcini folkie – e subito spiega che lui è la miglior fotocopia che vi sia in giro di Roger McGuinn, che i Byrds sono il suo verbo e che… attacca con il leggendario traditional John Riley (i Byrds, appunto, l’hanno immortalato in Fifth Dimension, 1966) e si capisce che Sid, da solo ma con tutta la sapienza che si porta appresso, non scherza niente. Dice che vuol suonare un’ora ma in verità, alla fine, ti accorgi che a tirarlo giù del palco non è facile: qualunque palco è casa sua, per come lo tiene benissimo sia quando suona sia quando racconta il background delle canzoni o delle imprese con i Long Ryders.

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Affabulatore infaticabile ma soprattutto non tedioso (fra l’altro, è parso davvero sentito il suo omaggio al vecchio amico Ernesto De Pascale, giornalista italiano scomparso qualche anno fa), musicista e cantante che non spreca una nota che sia una – Griffin, insomma, è un gran bel tipo d’americano che vorremmo sempre dalla nostra parte, anche perché l’arsenale di canzoni che propone è di grande stile. Quando evoca i Long Ryders è davvero un corso un brivido su e giù per la schiena: Harriet Tubman’s Gonna Carry Me HomeGunslinger Man e sopratutto If I Were A Bramble And You Were A Rose – vera bellezza di cristallo! – sono la storia di un grande gruppo – per non parlare di Ivory Tower, che in origine vantava proprio Gene Clark in session e che Sid dedica appunto al turbolento Byrd-che-non-poteva-volare.

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Griffin non è da sottovalutare nemmeno quando tira fuori anche suoi brani più recenti: l’omaggio a Bobbie Gentry con, per non sbagliare, Ode To Bobbie Gentry, è il degnissimo tributo alla misteriosa J.D. Salinger della musica americana – bello, bellissimo scoprire un brano che non si conosceva e sentirselo cantare in diretta a un metro (per chi vuole, lo si trova in The Trick Is To Breathe, 2014). E sempre a distanza di un metro, fra le varie cover, hanno «rubato lo show», come dicono a Louisville, una splendida, sussurrata Waitin’ On A Train di Jimmie Rodgers («È stato il più grande a raccontare la solitudine nelle canzoni – più di Joni Mitchell o di chiunque altro») e il gran finale con Abbiati che lo raggiunge sul palco: naturalmente i Byrds per parola di Bob Dylan con You Ain’t Goin’ Nowhere, con il pubblico coinvolto in un bel call and response – e Roger McGuinn è ancora lì che trema divertito per come Bob Dylan gli fece pubblica correzione ri-registrando il brano, poiché in origine i Byrds intesero male il testo («Pack up your money, put up your tent McGuinn/You ain’t goin’ nowhere!»). Per il resto, serpeggia l’idea che Sid Griffin prima o poi torni in Italia con i Long Ryders, già da tempo in reunion: non attendiamo altro, forza!

CICO CASARTELLI

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