Kunsten festival des arts> Bruxelles 2016 Quarto atto: Hearing

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Il Bozar di Bruxelles non è solo un centro d’arte contemporanea, ma un cuore pulsante di progetti artistici, eventi al passo con i tempi, a stretto contatto con ciò che accade nel contemporaneo. Non solo centro espositivo, ma sala cinematografica, sala concerti e spazio teatrale. Un luogo dove l’arte viene vissuta a tutto tondo, senza escludere alcun media.

Per assistere allo spettacolo scendiamo nelle profondità dell’edificio. Mi siedo carica di aspettative. Lo spettacolo parla di Iran, un Paese che mi ha da sempre affascinata per la raffinatezza della sua arte e la complessità della sua storia. Per chi non l’avesse già fatto, consiglio di fare un giro al Louvre di Parigi per visitare la sezione dedicata alla cultura islamica. Lì si trova una preziosa testimonianza della sconvolgente bellezza dell’arte persiana. L’antica Persia, così ben raccontata nelle sue moderne vicende da Marianne Satrapi in Persepolis, bande dessinée e poi film d’animazione, che ha colpito la coscienza di molti che ignoravano la storia di questo complicato Paese.

Hearing è la pièce, che stasera avremo l’onore di vedere, scritta e messa in scena da Amir Reza Koohestani, regista di origine iraniana. Dopo una breve esperienza come performer, si dedica alla scrittura dei sui primi spettacoli. Con il suo terzo spettacolo, Dance on Glasses (2001) Koohestani raggiunge notorietà internazionale, trovando il sostegno di numerosi festival e direttori artistici europei. Recent Experience (2003), Amid the Clouds (2005), Dry Blood & Flesh Vegetables (2007) e Quartet: A Journey North (2008) vengono tutti ben accolti in Europa. Dopo due anni di studi a Manchester, Amir Reza Koohestani ritorna a Tehran e crea Where Were You on January 8th?. Dall’ottobre 2014 al marzo 2015, Koohestani viene accolto in residenza presso l’Akademie Schloss Solitude di Stuttgart, dove scrive il suo ultimo lavoro, Hearing.

La piéce è ambientata nel dormitorio femminile di un’università iraniana, le protagoniste sono due adolescenti. Una di loro viene accusata di aver fatto entrare di nascosto un ragazzo nella sua stanza, comportamento vietato dal regolamento interno.

L’amica viene interrogata, come testimone, da una superiore ed entrambe vengono minacciate di essere espulse dal dormitorio. Sotto la pressante requisitoria della direttrice le ragazze si confondono, piangono, mentono, cercano di difendersi, diffidano l’una dell’altra. La superiore minaccia entrambe di sottoporre la presunta infrazione al Consiglio di disciplina, verrà aperta un’inchiesta.

“Perché menti?” chiede la direttrice a Samaneh “perché ho paura” risponde lei. La piéce gira intorno al concetto di verità e menzogna, potere e libertà. Si ha l’impressione di stare dentro a un tribunale dove la legge religiosa serpeggia come un sottinteso, come una specie di veleno che viene iniettato nella falsa coscienza di chi in realtà vuole esercitare un potere. Siamo all’interno di un dormitorio dove vige la legge islamica, ma potremmo   benissimo trovarci in un collegio cattolico di qualche decennio fa.

Con Hearing il regista Amir Reza Koohestani ci trascina nella vertigine di voci e immagini che si sovrappongono fino a confondere il confine tra fatto reale e dato immaginario. Tra le donne in scena non c’è alcuna complicità, i loro rapporti sembrano dominati dalla paura e dal potere. La ripetizione ossessiva dei loro dialoghi trasmette il senso di un luogo claustrofobico.

Lo spettacolo colpisce sia per il tema, sia per il modo in cui viene trattato. Vorrei conoscere il pensiero di chi ha creato questo intreccio semplice e allo stesso tempo complesso. Decido quindi di rimanere ad ascoltare il regista che al termine dello spettacolo incontrerà gli spettatori. Riporto qui di seguito i tratti che più mi hanno colpito del suo intervento: “Mahin mi raccontava spesso i suoi ricordi del dormitorio. Io stesso vi avevo trascorso un anno, ma l’esperienza sembrava molto differente rispetto a quella delle ragazze. Dunque ho capito che dovevo parlare con più persone per poter descrivere in modo preciso la vita in un dormitorio per ragazze.

Per scrivere il testo, mi ci è voluto molto tempo. Ho impiegato più tempo per creare l’intreccio che per scrivere i dialoghi. Durante qualche mese di residenza di scrittura, di cui ho beneficiato a Stuggart, camminavo spesso nella Foresta Nera per riflettere sulla forma che poteva assumere il mio testo.

Le cose sarebbero state molto più semplici se tutto si fosse svolto nella stanza dell’interrogatorio. Gli spettatori sarebbero senza dubbio usciti più contenti e rassicurati di avere compreso tutto: degli estremisti rigidi che perseguono delle giovani ragazze indifese per un atto che non hanno commesso.  Sarebbe stato un testo chiaro e lineare, conforme alle informazioni diffuse di continuo dai canali televisivi, ma accade che la realtà sia un’altra.  Contrariamente a quello che noi immagineremmo, l’interrogatorio non è condotto da un fondamentalista barbuto, ma da una studentessa a cui è stata affidata la chiave del dormitorio semplicemente perché lei è leggermente più grande delle altre. La ragazza inoltre non interroga le altre in ragione delle proprie convinzioni politiche o religiose, ma unicamente perché vuole conservare un dossier impeccabile per la sua carriera universitaria. Se fosse solo in un paese come l’Iran che gli individui devono giustificarsi di fronte a ispettori sospettosi, noi potremmo benissimo crogiolarci nella certezza che i metodi e le leggi di “quel paese là” sono da rivedere, ma che “noi altri qui” non abbiamo nulla da rimproverarci. Questo è il discorso che si tiene in tutti i partiti di destra oggi. In realtà dappertutto nel mondo le autorità non dubitano della loro legittimità, si siedono di fronte a voi per domandarvi di provare che non mentite.

Samaneh ha il torto di rifiutarsi di testimoniare a favore di Meda nel momento necessario.  Quest’ultima si fa espellere dall’università e 10 anni più tardi si suicida in Svezia perché la sua domanda d’asilo è stata rifiutata.

La questione che si pone è di sapere qual’ è la parte di responsabilità di Samaneh nella morte di Neda. Al suo posto noi ci sentiremmo colpevoli o ce ne laveremmo le mani? Davvero condividiamo a tal punto la cattiva coscienza di Samaneh da non chiederci perché non viviamo lo stesso disagio di fronte ai bambini uccisi in Iraq e in Siria con le bombe finanziate dalle nostre tasse? Qualche like e qualche share su Facebook, qualche petizione firmata nello spazio virtuale e pensiamo che le nostre colpe siano perdonate”.

 

VANESSA SORRENTINO

Hearing di Amir Reza Koohestani, visto martedì 24 maggio 2016 al Palais des Beaux-Arts di Bruxelles – info: kfda.be