David Crosby finalmente si ricorda il suo nome!

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Da non crederci – e invece no, bisogna proprio crederci: David Crosby ha fatto il suo disco più bello post If I Could Only Remember My Name… (1971), quello riuscito beginning to end che aspettavamo da decenni. Esattamente così, perché se gli altri fatti – tre, in verità – avevano qualche brano standout e in mezzo a molta ordinarietà misto compiacenza – vedi gli splendidi The Clearing, Yvette In English o Distances – in questo The Lighthouse sembra che al Tricheco sia tornata tutto d’un botto un’ispirazione fatta di marmo che lascia abboccaperta. Già li vediamo gli snobboni annoiati che squittiranno: oh no, un altro disco di Crosby! E, invece, oh sì – e che disco!

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La carta vincente, a naso, ci sembra di doverla attribuire al produttore e coautore di mezzo album Michael League, dominus del gruppo jazz Snarky Puppy, che ha lasciato a casa i Don Was, i Phil Collins, i Bernie Leadon e anche i Graham Nash, perché Croz tornasse all’osso della propria essenza, quella che in gioventù fu marchiata a ferro & fuoco da Fred Neil e da Vince Martin e che, appunto, trionfò con If I Could Only Remember My Name…. Strumentazione parca, qui e là qualche voce ad arrotondare quella magnifica di Crosby, nella fattispecie Becca Stevens e Michelle Willis – in poche parole, Crosby in solo lo avremmo sempre voluto così, in bilico fra folk astrale, reminiscenze di bossanova (mai smettere di ricordarsi quanto Croz abbia sempre amato visceralmente Antônio Carlos Jobim, João Gilberto e compagnia) e la sua peculiare, sognante vena blues. In poche parole, The Lighthouse meglio di così non potevamo immaginarlo.

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La voce non tenta di fare le cose di quando David aveva venti o trent’anni ma, altresì, domina perfettamente i suoi venerandi settanta e passa giri intorno al sole – e il paragone con Robert Plant, in questi termini, vien facile. The Lighthouse è fatto di nove numeri per una quarantina di minuti, fra i quali è difficile scegliere il meglio: che si passi per l’estatico pizzicar di chitarra di Look In Their Eyes, per l’eccezionale effetto onirico di Somebody Other Than You o per il meraviglioso bossanovismo rivisitato di The City, per davvero si resta ammaliati come non di ci attenderebbe da Croz nel 2016 – e invece, tutti i pregiudizi vanno a raméngo. E se in What Makes It So? vi vengono in mente i Byrds crosbyani intorno al 1967/68 (Everybody’s Been BurnedMind GardensDraft MorningTriad) o nel trionfale finale dell’album tutto soft rock e carezze By The Light Of Common Day vi balenano le magiche alchimie con Graham Nash, non sbagliate – qui David Crosby senz’inganni ha tirato a lucido la proprio natura, oltre ogni attesa. Per il resto, godetene finché ve ne è: fatti per durare come il Tricheco ne hanno fatti pochi, e i pochi che sono ancora in giro sono in via d’estinzione.

CICO CASARTELLI

DAVID CROSBY – The Lighthouse (Ground Up Music/Verve, Universal)

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