Tinariwen, la nostra Africa

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Tinariwen 2

La loro Africa, la nostra Africa. Non è difficile per un occidentale, per un ascoltatore occidentale, sentirsi ogni volta – ogni disco – un po’ più vicino ai Tinariwen. Non facciamoci illusioni: sono loro che si stanno avvicinando.

Il ritmo rimane liquido, ma ogni volta si squadra un po’ di più, le chitarre procedono sempre per spigoli ritmici fluidi, ma si dilatano in una sorta di blues degli spazi ampi, buono per svariate latitudini.

Ci hanno preso gusto, loro o chi per loro, a piacere anche in Occidente, e non c’è nulla di male. Anzi: sarebbe opportuno smantellare il mito del terzomondismo puro, in cui ricercare conforto, in fuga virtuosa dalla musica nostra tutta calcoli e occhiolini strizzati.

L’Africa ha influenzato il blues, il blues ha re-influenzato l’Africa, i fenomeni pop sono arrivati anche là, il chitarrista più amato di tutta quella scena non è qualche sciamanico griot ma Mark Knopfler dei Dire Straits, la musica è solo musica e circola nell’aria senza confini.

Certo, quell’Africa ha ancora una cosa che fa la differenza: il ritualismo. La musica come materia in divenire, a cui abbandonarsi, che permea la società in ogni momento, che respira sempre connessa alla terra, che pulsa di una sorta di necessità primaria.

È blues senza chiamarlo blues, nero e dunque intimamente collettivo; è psichedelia senza chiamarla psichedelia, con la banda come una carovana che prende il suono in un punto e lo porta in un altro, caricandolo dei colori del viaggio, e delle emozioni del viaggio.

È – questo possiamo concederlo – una sicura alternativa sonora al pop di due minuti con i cantanti iper emotivi tarati sul formato talent. O a qualche furbetto del quartierino, che baratta la poesia con gli slogan e la ricerca del suono con monodosi di gusto prefabbricato.

Insomma, è musica che comincia ad essere un po’ meno selvaggia e un po’ più addomesticata, certo, ma che respira ancora il senso del rischio e dell’avventura, il senso di essere presi e condotti in qualche posto, il rischio di stazionare a bassa quota e a bassi giri del motore finché non si prende «quella cosa» e non spuntano le ali per andare altrove.

Ci sono stati, e ci sono ancora, fenomeni musicali del Mali più interessanti dei Tinariwen. Ma nessuno ha mai parlato così profondamente al popolo del rock, divenendo rilevante, riportando di nuovo un po’ di blackness al centro del discorso. Anche con una guerra a casa, dietro le spalle.

E siccome noi siamo di quell’epoca in cui blackness was a virtue, per dirla con un Nobel, vogliamo loro molto bene.

 

ANTONIO GRAMENTIERI

 

18 novembre, TINARIWEN, Bologna, Locomotiv Club, via Serlio 25, ore 22. Info: 348 0833345