La porta senza la porta. Due donne dal romanzo di Magda Szabò

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Una volta tanto per parlare di uno spettacolo verrebbe voglia di cominciare dalla fine. Da quel messaggio agli spettatori letto dall’attrice Maria Pilar Pérez Aspa in chiusura, dopo gli applausi. Dove appare in tutta la sua evidenza un fatto drammatico, che credo accomuni molti piccoli e medi teatri e compagnie. Un fatto che si evince dal contentuto e dal tono della lettera, ultimativo, sofferto, anche se non amareggiato, anzi, giustamente rivendicativo di una scelta. Gli operatori del Teatro Ringhiera hanno pensato l’anno scorso di chiudere l’attività, poi ci hanno però ripensato “per masochismo, perchè siamo matti” cito a memoria, perché ci credono, insomma. Ma chiedono un sostegno al pubblico e denunciano una situazione di difficoltà.

Certo, sorprende. Uno s’immagina il Teatro Ringhiera come una realtà ormai davvero consolidata, e se non lo è vuol dire che da loro in giù la situazione dev’essere molto più drammatica. E se è vero che teatro e crisi sono quasi sinonimi (tanto per riprendere in qualche modo la battuta di Oliviero Ponte di Pino, che alla premiazione degli Ubu ha recentemente chiosato che la crisi del teatro esiste da quando il teatro è nato); se è vero che la crisi è quasi consustanziale al teatro, e lo è direi costitutivamente, ché un artista o una compagnia non in crisi rischiano infatti l’ipostatizzazione delle forme, dei codici, della ricerca di nuove strade; rischiano il successo come cronicizzazione del succedere, e dunque l’impasse, la stasi creativa, o la semplice ripetizione di moduli “vincenti”, è anche vero che la crisi economica non è elemento che possa figurare come lievito al pari di quella gestativa di un’opera. Essere poveri non vuol dire essere necessariamente creativi. Le due cose non vanno insieme. La crisi che l’artista si auto infligge per mettersi nella condizione di creare non può essere confusa con una disposizione a lavorare in stato di perenne difficoltà economica. Le dinamiche della creazione possono prevedere un deficit di orientamento, un temporaneo scompenso esistenziale o psicologico che si accompagna al difficile lavoro che su di sé ogni volta un attore compie, ma tutto ciò attiene alla fucina segreta, alla grotta di Vulcano per così dire, che è inviolabile; usare la fragilità che ne deriva come fosse una implicita dichiarazione di debolezza che legittimi ogni istanza di impoverimento economico sarebbe disonesto; oppure la necessità potente che innerva la motivazione di ogni vero teatrante usarla come conferma di una disponibilità a donarsi prescindendo da ogni discorso di natura economica… Del resto, che l’arte non sia e non debba essere volontariato è un assioma che sta perdendo sempre più forza. Lo si vede nei più vari contesti. L’affermazione di Gianni Rodari “non perché tutti siano artisti, ma perchè nessuno sia schiavo”, riferita alla necessità democratica di appropriarsi degli strumenti dell’arte e della conoscenza, oggi appare ingenuamente ottimistica. Oggi sembra vigente il “tutti artisti, perché liberi”; ma verrebbe da aggiungere “liberi, perché schiavi”. Schiavi della voglia di esibirsi, che nel tempo libero affianca e forse tempera l’ansia da performance, regressiva, ansiolitica, che permea sempre più i rapporti di lavoro. In ogni caso si è schiavi del tempo onnipervasivo della vita-spettacolo, che fagocita e scalza quasi il tempo dello spettacolo-vita, vale a dire del teatro: e il teatro dei professionisti perde prestigio e dunque valore economico di fronte al teatro di volontariato. Mi sbaglierò ma, guardando lo spettacolo retrospettivamente a partire da quella lettera, ne ho interpretato la forma come un sintomo abbastanza evidente di questa difficoltà: certo, sulla locandina era scritto a chiare lettere che si trattava di un “reading teatrale”. Però a me sembra che questo lavoro, supportato dalla grazia e dalla maetsria di due bravissime attrici, tra cui spicca per consumata sapienza scenica Maria Paiato, nel suo rimanere a metà strada tra il reading propriamente detto e lo spettacolo ci dica qualcosa di più della mera constatazione di un fatto. Perché sia uno spettacolo difetta nelle attrici la libertà di movimento tipica di chi ha assimilato interamente la parte nel corpo e nella memoria; per essere un reading teatrale, eccede di messinscena, con quel tavolo e quelle sedie poste nel mezzo del palco, cui fanno da contrappunto, in proscenio, i due leggii ai quali le attrici attingono la maggior parte delle parole; così anche visivamente ci si presenta la traduzione della formula “reading teatrale”. Metà messinscena, metà lettura, con una dialettica tra i due poli scenici che non crea tensione, o contrappunto, e il rapporto tra loro sembra non corrispondere a un esigenza drammaturgica ben definita. Certo, assegnare al leggìo la parte del ricordo che il più giovane personaggio, una scrittrice, rievoca del suo rapporto con la molto bizzarra, più anziana, governante, e al tavolo quella del dialogo diretto tra le due sarebbe stata una semplificazione, avrebbe forse irrigidito un po’ la struttura, ma la confusione che cogliamo tra i due piani lascia comunque la questione irrisolta.

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Così, per riprendere la mia provocazione dell’inizio, viene da chiedersi se questa peculiare forma – o non forma – sia dovuta proprio alle condizioni di difficoltà, anche produttive, in cui versa il teatro di via Boifava. E se fosse così sarebbe un segnale da non sottovalutare. Se due attrici così – faccio solo un’ipotesi – non possono andare a spettacolo (perché mancano le risorse, ad esempio) e sono costrette, insieme alla realtà produttiva per cui lavorano, a inserire una recita purchessia in forma di reading, stiamo dicendo che – esagerando un po’ – abbiamo a bottega un Leonardo costretto a fare solo schizzi a matita; o un Mozart che compone solo ballate popolari, e così via… Ad ogni modo, la bravura delle attrici è tale che sarebbero riuscite a materializzare i personaggi e le situazioni del romanzo della Szabò, da cui è tratto il lavoro, anche non muovendosi dal leggìo. Ed è quello che fanno, e bene, infine, dandoci il ritratto, schizzato a matita ma preciso, emozionante come una ballata, di due memorabili personaggi femminili.

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FRANCO ACQUAVIVA

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Visto il 15 gennaio 2017 al Teatro Ringhiera-ATIR di Milano – info: atirteatroringhiera.it

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