Visto da noi. La danza elementare di Pixel

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Pixel - ©Laurent Philippe

 

Pixel – ©Laurent Philippe

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Pixel: abbreviazione di «picture element». Mattonella da costruzione dell’immagine e dell’immaginario contemporaneo, è l’embrione percettivo per definizione, la “malattia” che fodera le nostre visioni, dalle liquidità fluorescenti della psichedelica agli spruzzi asciutti delle tubature catodiche e degli schermi ultrapiatti. Il pixel è la cellula primaria del medium televisivo allargata, oggi, ai monitor del pc e in genere ai display dei dispositivi elettronici. E, nel caso del Centre Chorégraphique National de Créteil et du Val-de-Marne / Compagnie Käfig, anche alla scena.

Nomen omen. La proposizione performativa del coreografo Mourad Merzouki agisce su un piano propriamente elementare, accogliendo materiali, topoi e stilemi da tutti pienamente riconoscibili.

Vale elencarne almeno cinque.

  1. Gli undici danzatori sono giovani, belli, decisamente energici. Dotati di quella perizia che, dai greci fino a noi, separa l’artigiano-artista dal non artigiano-non artista: «lui/lei è artista e io no perché sa fare cose che io non so fare». Chiaro e semplice.
  1. La scena di Pixel funziona come una wunderkammer: grazie agli stupefacenti videomapping e alle seducenti videoproiezioni di Adrien Mondot e Claire Bardainne, in molti momenti del lavoro si rimane, letteralmente e semplicemente, a bocca aperta. Guardando la scenografia virtuale in 3D intessuta di sfere aeree e leggere ci si stupisce, forse, come nel Cinquecento lo si faceva, tra naturalia e artificialia, di fronte a animali con due teste, uccelli rari, manoscritti di opere introvabili e papiri egiziani.
  1. L’universo coreutico di riferimento è il celeberrimo hip hop. Le sessioni di ballo generalmente assecondano una struttura espressiva fortemente legata alle categorie tecniche dei passi: partenza in piedi, passaggio a terra, sequenze che prevedono il dinamico utilizzo delle gambe, veloci movimenti di rotazione attorno a un asse del corpo, posizioni di blocco in equilibrio (appoggiando a terra testa, mani, gomiti e una gamba e tenendo l’altra sollevata), cadute improvvise.
  1. Il dispositivo coreografico riprende elementi comunemente riconducibili all’idea condivisa di “danza”: come nel più consolidato balletto romantico (1830-1850) abbondano duetti e assoli, nei quali un solista si stacca dal resto del corpo di ballo contrapponendosi ad esso; a tratti un danzatore è incorniciato/moltiplicato dall’ensemble; i ballerini sono costantemente aperti verso lo spettatore; la scrittura è intessuta di salti e rotazioni, contorsioni e allungamenti, inarcamenti e scivolate, prese e sollevamenti. È una danza fluida e vitalissima, elastica e dinamica, pienamente estroflessa.
  1. Il montaggio di Pixel, con buona pace di Ėjzenštejn, segue una logica di “montaggio delle attrazioni”: un susseguirsi di numeri ed effetti via via più stupefacenti, soprattutto nel rapporto fra corpi danzanti e videoproiezioni (questi paiono agire e modificare quelle, in una composizione affatto vellutata e accogliente).

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Pixel – ©Patrick Berger

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Il pubblico, grato di questa limpida chiarezza, sta al gioco e applaude grato.

Lo spettacolo è in scena anche oggi pomeriggio. Chi può, vada: c’è, semplicemente, da divertirsi.

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MICHELE PASCARELLA

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Visto il 4 febbraio al Teatro Alighieri di Ravenna – in scena anche domenica 5 febbraio alle ore 15.30 – info: 0544 249244, teatroalighieri.org

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